mercoledì 5 maggio 2021

Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino: Presentazioni


INCONTRO CON IL ROTARY DI TARANTO
12 febbraio 2021

(La registrazione audio degli interventi di Giovangualberto Carducci, di Vittorio De Marco e di Piero Massafra è stata personalmente rivista dagli interessati)


GIOVANGUALBERTO CARDUCCI - Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia - Sezione di Taranto
   Per avviare il discorso su questa bella monografia di Guglielmo Matichecchia, può essere suggestivo e utile partire dalla targa bronzea affissa nel 1925 sul prospetto occidentale del Palazzo degli Uffici (per intenderci lato scuola media “Capuana”, lato Ponte Girevole). Realizzata dallo scultore Giuseppe Masi di Gioia del Colle, specialista in questo genere di produzioni (è opera sua anche il monumento ai Caduti in Piazza Vittorio Veneto a Martina Franca), la targa bronzea voleva tramandare la memoria di Domenico Mastronuzzi, ma anch’essa, neanche a dirlo, all’indomani della caduta del Duce fu rimossa dal Palazzo al pari di tanti altri simboli littori.
  Quella targa bronzea rettangolare recava in basso, per l’intera lunghezza, una palma che è la palma del martirio, simbolo tipico della tradizione iconografica cristiana, mentre, in alto a sinistra vi campeggiava un volto femminile, una testa turrita che è invece simbolo della tradizione culturale romana: è l’immagine dell’Italia potente, forte, vittoriosa! Insomma, semplicemente a guardare l’impaginazione grafica della epigrafe, subito si apprezza la commistione del cristianesimo con la classicità, del sacro con il profano, insomma della religione con la politica in una logica di contaminazione che ritornerà nelle cose che sto per dire.
   Poi c’è il testo dell’epigrafe, il testo dettato dall’impareggiabile avvocato Alessandro Criscuolo, personaggio di punta della cultura tarantina post-risorgimentale, che è un inno alla grandezza di Domenico Mastronuzzi, giovane diciassettenne, divenuto un martire (tanto più martire appunto per la sua giovane età): egli aveva alimentato dentro di sé la bellezza di un’idea, l’idea dell’Italia dai molti volti inghirlandata dai nuovi epici lauri, dantesca e forte, cioè l’Italia vittoriosa, chiaramente l’Italia del fascismo. Non per caso il Criscuolo chiama quell’idea “fede”, e lega il sacrificio di Domenico Mastronuzzi a quella fede, invisa agli ebbri del dissolvimento dell’Italia che per questo uccidono il giovane. Insomma, viene impostata la polarità tra i fautori della grandezza della patria (e ovviamente fra questi Domenico Mastronuzzi) e i nemici della patria, determinati alla sua dissoluzione, con il giovane tarantino che paga il fio di questo antagonismo. Sennonché c’è la perentoria avversativa finale, quel “ma” che risolve la polarità e ricolloca nella prospettiva della verità il martirio di Mastronuzzi, e ciò per volontà del “popolo vero” che, scrivendone il nome nel bronzo, assicura a questo figlio di Taranto la gloria imperitura.
   In definitiva, anche l’epigrafe di Palazzo degli Uffici riproponeva la centralità di fede e patria, due pilastri dell’ideologia fascista, e appunto nella loro contaminazione si fonda il mito non solo tarantino di Domenico Mastronuzzi, giovane e martire, caduto nel 1921 a 17 anni sotto le pistolettate dei sovversivi rossi. Il suo martirio è il sacrificio del precursore: egli è caduto prima della formazione del governo mussoliniano, nella fase embrionale del processo socio-politico che avrebbe portato all’avvento di Mussolini al potere, un anno e mezzo prima della Marcia su Roma. Mastronuzzi è percepito (ed è presentato) come il martire che col suo sacrificio s’immola al bene supremo della grandezza dell’Italia. Mastronuzzi da una parte, la grandezza della patria dall’altro, mentre in mezzo, protagonista sottinteso, c’è il fascismo: insomma, il sacrificio di Mastronuzzi serve e contribuisce al successo della rivoluzione fascista che a sua volta porta alla grandezza dell’Italia; il passaggio intermedio viene obliterato, e solo apparentemente sembra restare il sacrificio di Mastronuzzi per la grandezza dell’Italia, ma va da sé che con lui viene celebrato soprattutto il Fascismo che continua a lavorare e a spendersi, oltre la morte del suo giovane martire, per i nuovi irresistibili destini della Patria.
Mastronuzzi era nato nel settembre del 1903, apparteneva a una famiglia locale in vista, risiedeva a Palazzo Mastronuzzi all’inizio di Via Cavour (all’angolo con Via Anfiteatro); era studente del Liceo “Archita” e nel 1919, a soli 16 anni, si era unito ai Legionari che avevano seguito Gabriele d’Annunzio a Fiume, ed era stato poi tra i fondatori del primo fascio di combattimento a Taranto. Egli muore l’8 maggio del 1921, alla vigilia della festa patronale di San Cataldo: era domenica sera e con alcuni suoi sodali il giovane Domenico si apprestava a raggiungere Crispiano per compiervi una spedizione punitiva; c’è confusione, parte una pistolettata che lo uccide, da qui il “gentile trucidato” di cui parla il Criscuolo. L’eco dell’avvenimento è grande, l’impatto emotivo della notizia è forte; si scatena subito una rappresaglia che colpisce il capo dei socialisti tarantini, l’avvocato Edoardo Sangiorgio, poi c’è il racconto dei funerali, della vicenda giudiziaria, l’individuazione del responsabile. Questa vicenda, che segna la genesi del mito di Mastronuzzi, è trattata da Matichecchia nel primo dei sette capitoli del volume.
   Gli altri sei capitoli sono invece dedicati, ben oltre la dimensione biografica, al mito di Mastronuzzi, il mito del martire precursore del fascismo, un mito di cui si impossessano subito i quadri dirigenti locali: Mastronuzzi è stato una sorta di catalizzatore del consenso al fascismo, diventa sicuramente il simbolo nobile del fascismo a Taranto e nel Ventennio, in ogni occasione di crisi e di tensione il suo mito sempre viene rispolverato e rigenerato; le onoranze per il suo sacrificio finiscono con il diventare un appuntamento fisso per la città, al pari di altre ricorrenze religiose: nel Ventennio c’è l’appuntamento annuale con le onoranze per Domenico Mastronuzzi che si tengono appunto nella piazza a lui intitolata (attuale Piazza Archita) antistante il Palazzo degli Uffici, dove si trovava l’epigrafe bronzea di Masi e Criscuolo, e ove si svolgevano le adunanze celebrative, a cominciare da quella del 1925 in cui a scoprire la targa bronzea fu Roberto Farinacci, all’epoca numero due del fascismo.
   Matichecchia comprende bene che Mastronuzzi è il simbolo, è il martire precursore del fascismo tarantino, e perciò lo usa come una sorta di specimen, come suggerisce il titolo, per entrare, per immergersi “nella storia del regime”: seguendo il fil rouge di Mastronuzzi, Matichecchia si addentra e ricompone narrativamente tante vicende del Ventennio tarantino, valorizzando tutte le circostanze in cui quel mito riprende corpo, ora nelle onoranze, ora nei dibattiti, ora nelle manifestazioni e nelle adunanze, ora nei passaggi di cariche e di potere. La vitalità del mito di Mastronuzzi offre a Matichecchia la trama per tessere l’ordito di questa ricostruzione, questa narrazione delle vicende tarantine nel Ventennio. È il mito di cui il fascismo si appropria e nel quale si rispecchia tutta la città.
   Quali sono le opzioni di Guglielmo Matichecchia in questa ricostruzione? A me sembra che siano tre le dimensioni che egli privilegia: i vertici della vita politica amministrativa e fascista locale fatta di sindaci, potestà, gerarchi, federali, con l’incessante turn over di personaggi che si succedono nelle varie cariche e di cui è fornita minuta notizia nelle note. Quindi, la vita sociale che essenzialmente si esprime nel disagio e nella protesta nella crisi dello Stato liberale, cui Matichecchia dedica i tre capitoli che seguono il primo; negli ultimi tre capitoli, centrati sulla storia tarantina nel Ventennio, viene esplorata soprattutto la partecipazione popolare nel consenso in termini di appoggio più o meno convinto al fascismo, e comunque apparentemente sempre adeguato alle esigenze del regime (in questo ambito l’analisi dell’Autore si fa particolarmente approfondita nel tentare di sondare e focalizzare la formazione del consenso di massa, alimentato con la cosiddetta mistica fascista). Infine, l’attenzione alla vita scolastica e alla vita culturale con i vari eventi e personaggi della scuola, della cultura e della letteratura che si susseguono nella città.
   Istanza irrinunciabile e trasversale di questa ricostruzione sta nell’intreccio con la storia nazionale: Taranto non è altro da Roma, non è altro da Milano; Taranto è a Roma e Roma è a Taranto; i grandi del fascismo sono spesso nella città bimare, nel 1934 c’è la visita di Mussolini e Criscuolo fa parlare il redivivo Mastronuzzi che, salutando il Duce, dice “Benedetto il nostro martirio” e prosegue: “Non indarno morimmo, io ti porto le chiavi di tutti i cuori, sul sanguigno guanciale del mio cuore, cuore pulsante di littoria fede”. E, più in generale, in questo libro la storia del fascismo ci sta tutta, dalla Marcia su Roma all’omicidio Matteotti, dai Patti lateranensi alla proclamazione dell’impero, dalle leggi fascistissime alle leggi razziali, fino all’entrata in guerra; narrativamente vi è il continuo contrappunto tra vicende locali e vicende nazionali che aiuta a comprendere il dato locale, ma che d’altronde illumina ancora meglio il dato nazionale.
   Il risultato qual è? È questo bel libro, che si legge bene, che appaga l’erudito e che, al tempo stesso, fa alta divulgazione. Appaga l’erudito, perché gli restituisce una dovizia di dati, di nomi, di fatti, che l’Autore sa dosare nella narrazione, gestendole ora nel testo, ora nelle note, guadagnando l’equilibrio di un racconto che è sempre sobrio e si tiene sull’essenziale. E per questa via il libro attinge anche la dimensione dell’alta divulgazione, in quanto fa conoscere bene, in maniera documentata e coesa, i fatti dell’epoca. In più, questo volume testimonia un esempio di civismo, vorrei dire encomiabile. Più invecchio, più mi convinco che la conoscenza e l’approfondimento della conoscenza della storia marca la vera appartenenza alla comunità: chi conosce, chi studia la storia di un territorio, di una comunità, fa parte più profondamente di quella storia, di quella comunità, ne capisce di più il presente, ne coglie più significativamente il senso e ciò aiuta sicuramente a dare indicazioni e spunti per progettare meglio il futuro.
  Per tutto questo io ringrazio Guglielmo, lo ringrazio personalmente e lo ringrazio a nome della Sezione tarantina della Società di Storia Patria per la Puglia che ha accordato il proprio patrocinio all’iniziativa editoriale, ed è stata ben lieta di farlo giacché si tratta di un’opera pregevole che sta giustamente incontrando l’attenzione che merita. Vi ringrazio.


VITTORIO DE MARCO - Ordinario di Storia contemporanea dell'Università del Salento
   Buonasera a tutti, grazie per l’invito da parte del dott. Paolo Solito e per l’occasione che mi si offre di tornare a parlare di quest’ultimo libro del prof. Matichecchia del quale devo subito sottolineare un aspetto del suo “modus operandi”: quando scrive un libro fa un’azione molto importante che non tutti fanno: si confronta. Di quest’ultimo progetto infatti - come del precedente su Federico di Palma - ne abbiamo parlato più volte quando muoveva i primi passi ed è stato possibile seguirlo nel tempo, nella sua gestazione, nei suoi passaggi storiografici e metodologici. C’è una doppia operazione messa in atto in questo libro, due fitti strati, due palinsesti che si intrecciano : una vicenda prettamente biografica - quella del giovane Mastronuzzi - e una più ampia e complessa da verificare e raccontare che è quella del fascismo a Taranto la quale si muove a sua volta su un triplice sfondo: locale, nazionale e internazionale.
Guglielmo Matichecchia analizza gli anni del ventennio tarantino raccontando la storia di un giovanissimo fascista ucciso la sera dell’8 maggio 1921, nei pressi del ponte di pietra, mentre era con altri commilitoni che si preparavano a partire per una vicina località. Ecco trovato quindi il filo rosso per seguire la nascita e l’evoluzione del fascismo locale ma, al contempo, per seguire e raccontare la storia tout-court della città fino all’armistizio del 1943.
  Dell’omicidio di Mastronuzzi, Matichecchia fa innanzitutto una lettura attenta di come la stampa locale e nazionale ricostruisce il fatto in sé e come la storiografia lo ha successivamente letto e interpretato. L’uccisione del giovane fascista non fa che aggiungere altra tensione in una città che sta appena uscendo dal così detto “biennio rosso”.
   Nonostante che nel maggio 1921 nulla in Italia è definitivamente compromesso dal punto di vista politico, pur di fronte alla crescente pressione delle squadre fasciste e al maldestro e poco calcolato tentativo di Giolitti di “costituzionalizzare” il movimento mussoliniano, da qualche osservatore più attento, non solo locale, proprio l’episodio di Domenico Mastronuzzi, avvenuto in una zona dell’Italia sostanzialmente “periferica” dal punto di vista politico, poteva essere letto, per le reazioni locali e nazionali che aveva suscitato, e che Matichecchia ben documenta, come una spia eloquente di come e di quanto la società e la politica italiane si erano poste su un piano sempre più inclinato.
   Ogni svolta particolare della storia ha bisogno di miti ai quali appoggiarsi e si scruta subito nel passato alla ricerca degli incunaboli di uno specifico grande avvenimento. Il fascismo fa la stessa cosa e con le debite proporzioni, quello locale non deve andare lontano nel tempo per trovarne uno, lo trova ancora caldo, per così dire, nel senso che il fascismo tarantino si impadronisce subito della figura di Mastronuzzi, facendone un eroe delle idealità fasciste. Il giovane era stato molto probabilmente ucciso dai colpi partiti accidentalmente dalla pistola di un finanziere, ma la vulgata indicherà sempre e soltanto il gesto insano dell’antitaliano bolscevizzato, rinnegatore dei veri ideali della patria, assoldato ad un potere estraneo alla storia italiana. Una volta stabilito questo, tutto concorreva a creare il mito. E l’Autore ci mostra man mano come questo mito cresce col crescere dell’influenza fascista, per diventare dopo il 1925/26 e soprattutto negli anni trenta un mito “totalitario”, ricordato l’8 maggio di ogni anno con cerimonie in piazza Archita, che presto verrà dedicata al giovane ucciso. Di fronte alle divisioni del fascismo locale, il mito celebrativo del giovane Mastronuzzi agirà come elemento unificante seppure temporaneo.
   Da un punto di vista più generale il mito di Mastronuzzi sarà la cartina al tornasole per registrare con attenzione da parte di Matichecchia il clima di esaltazione generale e locale del ventennio. Ma come ho già detto, la vicenda del Mastronuzzi e del suo mito, si intrecciano con la storia della città: gli anni tra il ’19 e il ’20 (“biennio rosso”) avevano provocato a Taranto una forbice sempre più ampia tra il ceto borghese in tutti i suoi gradi e la classe operaia; e il libro coglie i contorni principali della radicalizzazione del momento politico nazionale che si riverberava anche su Taranto.
   Il libro parla di un giovane e nello stesso tempo offre i contorni di quella gioventù anche tarantina, attraversata da forti ideali, per cui non si poteva essere man mano che sempre più o rossi o sempre più neri, o amici o nemici, non semplici avversari politici. La natura di questi giovani aspettava soltanto un’occasione per erompere all’aperto e agire.
  Gli appuntamenti elettorali politici e amministrativi dal 1919 in poi, tenderanno a svolgersi «in un clima di laceranti contrapposizioni», come scrive Matichecchia, tra fautori dell’ordine e i “sovversivi”, e usa termini come “precipizio”, “deriva”, analizzando a fondo le periodiche elezioni politiche ed amministrative.
   La città scivola man mano verso l’epilogo degli anni ’30; ma lo fa con i suoi spettacoli, le sue gare motociclistiche, le sue rappresentazioni teatrali. Arriva la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti, gli stanchi incitamenti alla vittoria, fino al 25 luglio del tormentato anno 1943. «Con il 26 luglio, i gerarchi del fascismo tarantino si eclissano e restano solo gli sprovveduti, smarriti e disorientati, non in grado di elaborare il lutto per la fine del fascismo».
   Ma torno un momento alla figura del Mastronuzzi perché proprio la lettura che fa Matichecchia delle periodiche celebrazioni del mito mi ha spinto ad una riflessione che ho riportato anche nella prefazione e che sintetizzo: mi sembra cioè che coll’andare del tempo la figura del giovane in sé diventa altro dalle celebrazioni del mito che lo riguarda, quasi che non fossero più la stessa persona, nonostante partecipino fino all’ultima celebrazione i familiari più stretti. C’è in altre parole un’astrazione della sua figura, uno svuotamento della sua anima. Al di là della fisiologica stanchezza che man mano prende l’appuntamento dell’8 maggio («niente di più del dovuto» scrive Matichecchia per le celebrazioni del maggio 1935), il Mastronuzzi del 1921, morto nei pressi del ponte di pietra si allontana, nel suo essenziale profilo biografico, da quello che man mano viene ricordato in forma sempre più astratta attraverso la liturgia del mito dell’eroe fascista e attraverso il filtro di un monumento, l’intitolazione di una piazza o di una scuola.
  Un altro aspetto che a me premeva sottolineare proprio nella prefazione è che tutta la vicenda raccontata con passione e competenza da Matichecchia ancora oggi potrebbe essere motivo di riflessione, di dibattito, di confronto sempre e soprattutto nelle scuole, proprio perché il protagonista è un giovane studente dell’Archita ed anche perché la storia ci appartiene tutta così come si è svolta, non possiamo prenderne i pezzi che più ci fanno piacere e lasciarne altri perché raccontano avvenimenti non condivisi. Insomma non sarebbe male porsi il quesito, da un punto di vista pedagogico e didattico, di come presentare questo libro ai liceali, come declinarlo senza processi alle persone e tantomeno al giovane Mastronuzzi.
  Il libro di Matichecchia infatti non fa processi a nessuno, non cade nella trappola delle opposte ideologie; scandaglia con l’ausilio di una stampa, il cui utilizzo ancora una volta risulta prezioso e indispensabile, la storia di una città, di un regime, di un giovane a suo modo protagonista di quel ventennio, di uomini dei vari rami del governo locale, in gran parte inadatti a sostenere e gestire la mole di quegli avvenimenti che si succedono tra il 1919 e il 1943.
   Certo emerge dallo studio di Matichecchia una Taranto che comunque si muove, si agita, vive le sue difficili vicende naval-industriali con la crisi degli anni Venti ed una certa ripresa negli anni Trenta, con i suoi operai ed antifascisti, con la sua partecipata vita religiosa; una città che si esalta per la monumentale costruzione del palazzo del governo così come per la visita di Mussolini, ma che facilmente si impaurisce e si deprime dopo i primi bombardamenti alleati sulla città.
   Matichecchia ci accompagna dunque in questo “lungo” ventennio, offrendoci nuove chiavi di lettura di quegli anni complessi, proprio avendo come prisma di interpretazione la tragica vicenda personale di Mastronuzzi, sempre attento alla lettura del materiale storiografico più attendibile e meno fazioso, sforzandosi di leggere nell’animo di una città che viveva anche la sua vita quotidiana in quegli anni e aveva i suoi divertimenti e i suoi luoghi di ritrovo, i suoi pontificali in cattedrale, le sue adunate in piazza della vittoria, ma anche i suoi commerci, il suo mare, la “sua” marina militare.
  Questo libro merita tutta la nostra attenzione, anche per il suo stile, per come tutte le complesse e meno complesse vicende sono raccontate, e basterebbe scorrere le varie recensioni man mano pubblicate in queste settimane per rendersene conto, ma ancora di più ci si può rendere conto attraverso una lettura diretta. Grazie prof. Matichecchia, grazie Guglielmo per quest’altro importante tassello che ci offri per una sempre migliore comprensione della storia della nostra città.

PIERO MASSAFRA - Editore
Allora partirei mettendoci un “tertius (sic) non datur” perché, dopo gli interventi dei carissimi amici e studiosi che mi hanno preceduto, è chiaro che alcune cose dovrò sintetizzarle.
   Io mi soffermerò un po' da editore che ha a che fare con libri e che li legge, a volte innamorandosene; in questo caso l'amore è stato a prima vista e se quelli a prima vista molto spesso non durano, questo credo durerà parecchio perché c'è da dire che è raro e difficile parlare di Fascismo, come nel nostro caso.
   È inutile nasconderci dietro un dito, è difficile perché anche se si affronta con il distacco critico che lo studioso, lo storico deve avere, trattarne è sempre un po’ imbarazzante; l’opinione pubblica non è ancora pronta ad accettare “cose” del genere.
 Questo libro, letto fino in fondo e attentamente, rappresenta dimostra però come anche la più scabrosa delle situazioni storico-politiche-ideologiche può essere affrontata con distacco, con serietà, con oggettività e tutto questo, badate, risulta chiaro se si va a dare un'occhiatina alla bibliografia, alla sua robustezza, alla sua autorevolezza: ci si trova difronte ad un’opera di particolare complessità e di particolare valore.
   E come uscire dall’imbarazzo di un rapporto con una materia difficile?
  Al prof. Guglielmo Matichecchia è possibile perché credo sia uno studioso che fa parte di quella che definirei “consorteria defeliciana”.
   Renzo De Felice, molti anni fa, incominciò a violare “il non se ne parla” o nel caso, se ne deve parlar male, e Matichecchia da ricercatore, con distanziamento ideologico, può trattarne e il desiderio di oggettività lo ha già mostrato in altre sue cose, non solo nella sua attività di conferenziere, di uomo di cultura, di lettore di Dante, ecc… ma soprattutto in quello splendido volume che riguarda praticamente l’iniziale ‘900 tarantino, dedicato a Federico Di Palma che, mi sono permesso di dire una volta, insieme ad un opera importante di Vittorio De Marco, mi sembra uno due pilastri della più seria storiografia tarantina.
   Dunque il fascismo, qui, proprio in maniera de feliciana, è riesplorato al punto che sill’argomento si lancia anche una luce nuova, almeno per i contemporanei. Perché quelli che sono stati in quel mondo, che hanno avuto tradizione familiare molto particolare con quell’età, forse possono avere più sensibilità per capire davvero cosa avvenne, ma, per il “contemporaneo” questo libro di Guglielmo è certamente un riemergere di Taranto, iln restauro di una parte della storia della città a lungo taciuta.
   Che cosa, qual è l'elemento che mi ha colpito? Certo Taranto, il fascismo, i gerarchi che vengono, il martire che diventa simbolo di una rivoluzione possibile o non possibile, ma soprattutto il giovane Mastronuzzi. È un ragazzo di 17 anni, e da cosa nasce quella sua sensibilità? dobbiamo entrare nella cultura italiana ‘800, e nei licei italiani del periodo.
  La scuola, scrive Guglielmo, esaltava un Risorgimento che, seppur incompiuto (anche questo va tenuto presente), restituiva all'Italia l'antico onore, una comune appartenenza, una riconoscibile identità, soprattutto una patriottica fraternità di sentimenti e di speranze da non disperdere e da consolidare.
   Ebbene alcuni giovani certo sbagliavano, ma noi sappiamo che poi la cosa sarebbe finita come finì, loro no; e c'erano altri giovani, altrettanto infervorati, che sembravano però, rispetto a quelli costruiti direi ufficialmente nella tradizione culturale occidentale, come fossero non residenti nella stessa patria-nazione, altrettanto inclini a realizzare qualcosa; non c'è gioventù distaccata in quel momento della storia cittadina, della storia d’Italia: tutti o quasi i postadolescenti erano giovanilmente “furiosi”.
   Mastronuzzi parte per Fiume verso D’Annunzio che è il mito, il fascino, l'Europa, la grandezza, la cultura: è chiaro che si è irretiti inevitabilmente da un mito vivente e non da un’ideologia dispersa in tanti personaggi più o meno interessanti che operano in un ambiente che non può trasmettere il fervore immediato del vate. E l’incipit del libro di Guglielmo è proprio in questo rapporto con la figura straordinaria del nostro D'Annunzio.
  Ebbene, certamente il giovane non voleva essere martire nel modo in cui finì con l'esserlo, strumentalizzato, ma il martirio era ancora nella logica di uno spirito risorgimentale; non possiamo dimenticare che c'è una tradizione mazziniana che pensa che il lsangue può essere dato alla patria, perché la patria risorga; quindi era convinto, come molti giovani, che la violenza poteva avere due valori: una violenza buona, terapeutica, addirittura feconda, e una cattiva che era quella degli altri italiani che naturalmente non si legavano alla tradizione culturale da cui Mastronuzzi era stato formato.
   Insomma quel ragazzo fa parte di una generazione conquistata da un fanatismo intollerante che peròva contestualizzato storicamente; quella realtà va liberata dal semplicismo di una rappresentazione in cui il presente si sovrappone al passato con deformazioni ideologiche e acrobazie intellettuali antistoriche.
   Nel libro, nel saggio, io dico nel “romanzo” c’è Taranto del primo ‘900 che aspetta, secondo me, di essere, come dire, anche vissuta in una dimensione romanzesca e il libro di Guglielmo ha il fascino del racconto, retto da una lingua curata; la scelta narrativa, pur rispettando gli strumenti della saggistica, si giova di ritmi espositivi adeguati ai diversi momenti di partecipazione, ma non per complicità o condivisione. E lo stile si sottomette all’incalzare degli eventi, si chiude in parole, in ritmi senza sbavature, parole che devono aderire, anche nei suoni, nella struttura sintattica, nella scelta lessicale, al momento di cronaca o di storia, alle atmosfere, al comune sentire e alla umana partecipazione a quel momento.
   Vorrei citare alcuni luoghi del volume in cui l’incalzante narrazione è davvero la colonna sonora dei fatti; ad esempio si avverte quasi una naturale, funebre versificazione nel luttuoso incedere dello sguardo, del sentimento, verso quel fatto, quel caduto, non ancora martire ufficiale, ma solo giovane prematuramente e ingiustamente sottratto alla vita.
   Ogni eventuale dubbio apologetico è fugato dalla dovizia di naturali, umani segni di commozione che propone il linguaggio di Guglielmo Matichecchia, e che ritrovi in tanti termini che sono quelli di tutti i pietosi riti della morte, in più solo il tricolore ad indicare che c'è una presenza, diciamo, di ideologia. Ma avverti anche i fiori, freschi, gli amici, fedeli; viene quasi spontaneo di dare questo omaggio ad un giovane che comunque è vittima di tutto, probabilmente anche di se stesso e senti lo smarrimento sincero di tanta parte della città borghese, e persino delle istituzioni; addirittura nel manifesto del sindaco Pasquale Delli Ponti si fa appello “ai migliori sentimenti, al patriottismo della cittadinanza per esortarla alla reciproca tolleranza delle proprie idee, in nome della stessa libertà che tutti invochiamo”.
Infine non si può non ringraziare l'autore, lo dico con assoluta sincerità, per lo straordinario, completo indice dei nomi: una sorta di vero soccorso culturale, per favorire la possibilità di andare a ritrovare famiglie, luoghi, fatti, eccetera; al lettore certo sarà di enorme aiuto.
   Dunque, Matichecchia si pone di fronte a fatti sbiaditi, inattuali, ormai rimossi e lo fa con piglio da storico, senza finalità politiche o ideologiche, perché sa bene come la storia non ammetta alterazione o rimozioni, ma indagini.
   Lo storico in fondo è un restauratore o comunque un addetto alla manutenzione del passato, che va riguardato, sorvegliato perché non crolli o sbiadisca, non per farne un modello o il suo contrario, ma, per documentare una tessera della vita dell'uomo, di una città, di un popolo.
   Vorrei congedarmi, richiamando le belle recensioni puntuali, colte, proposte da José Minervini e da Lucio Pierri che insieme considerano l'opera di Matichecchia, certo indagatrice di un fatto clamoroso, ma, soprattutto un esempio straordinario e riuscito di “storia corale”, nella quale si accomodano tante famiglie tarantine di ieri, importanti, passate poi nell’oggi; i numerosi ospiti illustri che ogni anno erano a Taranto per l’anniversario di quella morte; i luoghi come erano allora; la stampa, croce e delizia della città, e la sottolineatura di quanto sempre si addica al comportamento dei giovani, alla loro irruenza che andava riempita e gli ideali di allora erano quelli.
   Mi pare, e lo dico con sincerità, cn un po' di esperienza di cose che si pubblicano dalle nostre parti, che il volume di Guglielmo è tra le poche opere sull'argomento, pur apparentemente circoscritta nel pomerio cittadino, che si proponga come di taratura e interesse nazionale, perché egli ha avvertito, nella sua indagine, che questo doveva essere un argomento da riprendere e da riportare alla ribalta nazionale, perché Taranto in quel momento aveva davvero un’importante valenza nazionale.
   E ringrazio il mio amico Paolo Solito per questa occasione culturale proposta e offerta alla città.



INCONTRO CON L'AIMC DI TARANTO
17 aprile 2021


INCONTRO CON L'ANPI DI MASSAFRA
25 aprile 2021
Con l’introduzione di Graziana Leo, presidente Anpi Massafra, ha avuto luogo, nella nostra città, la celebrazione del 25 Aprile, data storica e simbolica di Libera-zione da ogni fascismo. L'Amministrazione comunale ha salutato l'evento con le parole del presi-dente del Consiglio comunale, Maurizio Baccaro. L'incontro ha avuto il clou nella presentazione del libro di Guglielmo Matichecchia, “Nella storia del regime”, un’analisi del ventennio fascista osservato con l'occhio distaccato dello storico. La relazione introduttiva è stata del dott. Gianni Jacovelli, storico della medicina e già sindaco di Massafra. E’ quindi intervenuto il prof. Piero Massafra, editore e studioso di cultura
classica. L’autore, Guglielmo Matichecchia ha concluso l’incontro. Parlare di fascismo per celebrarne la caduta potrà apparire desueto. In verità per difendersi dal fascismo bisogna studiarlo con occhio distaccato per riconoscerne i segni prodromici. Ed oggi sono numerosi i segnali d'allerta: lo smarrimento dell’Unione europea, la perduta credibilità dello Stato e delle Regioni, l’accresciuto impoverimento del ceto me-dio. Sono tutti motivi per vigilare affinché non accada quanto avvenuto in Polonia, Ungheria, Austria, Brasile. Le difficoltà delle nazioni diventano terreno fertile per le dittature. In collaborazione con l’associazione "Giardini Musi-cali" di Daria Palmisano, l'Anpi di Massafra ha realizzato un video in cui "Bella Ciao", canto popolare simbolo della resistenza italiana, ha fatto da colonna sonora a foto e documenti di antifascisti massafresi provenienti dell'archivio Santoro. Per il secondo anno, anche i giovani di Fratres Puglia hanno reso omaggio alla festa della Liberazione tramite la rubrica "Fratrestories", affidando ad un giovanissimo volontari la testimonianza e le ultime parole di Franco Balbis, partigiano ucciso dai nazisti nel 1944.

(Celebrata la Liberazione dal fascismo, in "Sensificio", Anno VI, 1 maggio 2021, n. 141, p. 3)



Il mondo della scuola piange Mino Oggianu

   La città, il mondo della scuola e della cultura perdono uno dei suoi figli migliori. Giacomo Oggianu, Mino per i colleghi e i tanti amici, lascia inconsolati quanti l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene.
  Nasce l’8 novembre 1931 e conosce i sacrifici e le sofferenze degli anni difficili di un’Italia che si illude d’essere una potenza imperiale, di poter vincere una guerra e che, invece, si ritrova con le macerie di un Paese da ricostruire.
   Giacomo Oggianu sa che la scuola può favorire la rinascita, far sperare in un futuro migliore ed essere la leva per risollevare le sorti della nostra società. Con l’anno scolastico 1953-54, inizia l’insegnamento nella scuola elementare; è il maestro che sa conquistare la mente e il cuore dei bambini. Con tenace volontà e con non pochi sacrifici, segue gli studi universitari e consegue nel 1963 la laurea in Pedagogia, richiesta per partecipare al concorso per direttore didattico e conseguentemente iniziare nel 1966 la nuova esperienza nella direzione delle scuole elementari che proseguirà sino all’agosto del 1982, quando - a seguito di un concorso nazionale - diventa ispettore scolastico.
  Attraversa le stagioni più importanti della scuola elementare, dalle classi affollate e dalle aule spesso di fortuna, dalle classi differenziali e speciali, dalla scuola selettiva alla scuola dell’integrazione, dell’inclusione con un primo respiro di partecipazione democratica con i famosi decreti delegati.
  Gli ultimi anni di direttore didattico sono trascorsi nella scuola elementare del XV circolo “Don Lorenzo Milani” di Taranto e il prete di Barbiana è ormai il punto di riferimento per chi, come Oggianu, crede in una scuola democratica, pienamente formativa, inclusiva, per tutti e per ciascuno. È sempre in prima fila per il rinnovamento della scuola, impegnato nei processi di innovazione che abbisognano del rigore della ricerca e della sperimentazione educativa. Sono gli anni in cui la scuola del capoluogo può contare su una leva di ottimi direttori didattici con i quali ritrovarsi con forti valori educativi. Tra questi si ricordano Pina Gubitosa, Vincenzo De Michele, Franca Bonavoglia, Angelo Locritani, Pietro Talamo, Mario Scialpi, Giuseppe Colucci, Paola Sassi Airò, Nico Indellicati, Giulio Liuzzi e altri che hanno dignitosamente onorato la scuola italiana. La sua attività di ispettore scolastico, iniziata nel 1982 nella provincia di Matera, continua e si conclude a Taranto nel 1996. Sono gli anni trascorsi con i provveditori Giovanni Gigli e con Alfengo Carducci, con i colleghi Leonardo Crichigno, Ettore Frunzio e Antonio Panetta in una realtà che inizia a mostrare i suoi limiti con l’avanzare di una scuola con una cultura più aziendalista. Si impegna anche nella formazione delle nuove leve dei docenti per l’integrazione agli alunni diversamente abili nell’OSMAIRM di Laterza e nei corsi organizzati dal locale Provveditorato agli studi, nella docenza universitaria nella facoltà di scienze della formazione della LUMSA di Taranto.
   In ogni momento della sua attività al servizio della scuola, dimostra sempre l’alto senso dello Stato, il rispetto della istituzione alla quale ha vocato la sua vita con zelo, con spiccato senso del dovere, con lungimirante intelligenza, con passione educativa. Chi lo ha conosciuto bene ricorda le sue qualità di “osservatore attento, rispettoso e sensibile, pronto a cogliere i bisogni di chi gli sta vicino, cercando sempre di aiutare, senza chiedere nulla, la sua onestà nel lavoro e nella vita, la sua tenerezza di padre, di nonno”. Sì! Giacomo Oggianu vive la bellezza dei valori della famiglia, dove è marito esemplare, padre premuroso, orgoglioso delle sue meravigliose figlie Marisa, Fiorella, Silvia e Sandra, che sentiranno sempre vivi i suoi insegnamenti e il suo amore.
   Ciao, Mino, ti sia lieve la terra!

GUGLIELMO MATICHECCHIA, Il mondo della scuola piange Mino Oggianu, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 30 aprile 2021, n. 82, p. 18.

martedì 23 febbraio 2021

NELLA STORIA DEL FASCISMO. DOMENICO MASTRONUZZI E GLI ANNI DEL FASCISMO TARANTINO - LE RECENSIONI SULLA STAMPA




























Il regime a Taranto e il delitto Mastronuzzi

Mario Guadagnolo
Saggista e già sindaco di Taranto

“Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino” edito da Scorpione è l’ultima fatica di Guglielmo Matichecchia che con questo libro colma una lacuna negli studi sul fascismo tarantino e lo fa da par suo attraverso una importante e copiosa documentazione che racconta in maniera esaustiva come andò quella vicenda. E Matichecchia lo fa non solo da storico consumato qual è (ricordo solo il suo bel testo su Federico Di Palma edito anch’esso da Scorpione) ma anche in maniera originale poiché non si limita al racconto puro e semplice, ancorché documentato, del fatto ma inserisce l’episodio nel più vasto racconto del fascismo nazionale e di quello locale attraverso un percorso originale nel quale avvenimenti nazionali e locali si intrecciano e si ripropongo continuamente. Per questo il libro di Matichecchia non è solo un testo sull’assassinio di un giovane fascista tarantino ma è tout court un affresco di gran pregio sul fascismo nazionale e tarantino raccontato attraverso una prosa che non ha nulla di accademico e che, anzi, risulta talmente accattivante tanto da tenere alta l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina. Cosa rara e davvero insolita per un libro di storia.
Quello di Matichecchia è un percorso a zig zag nel tempo o meglio una sorta di stop and go poiché entra subito in medias res con il racconto dell’episodio Mastronuzzi ma poi torna indietro per raccontare come nasce e come si evolve il primo fascio tarantino e quello nazionale dai suoi inizi con la marcia su Roma fino alla disfatta del ’44. Quello di Matichecchia non è il tono di un noioso accademico ma il suo testo sembra scritto da un documentarista che propone un docufilm nel quale sullo schermo sfilano i protagonisti e i testimoni che sono la stampa locale e nazionale dell’epoca e gli stessi testimoni presenti al fatto. Matichecchia sull’episodio Mastronuzzi riporta ovviamente le testimonianze dei capi del fascio tarantino, come quella di Nicola De Benedictis, e di personaggi minori come quella di Gino Tarantino che è la più emblematica del clima e della cultura in cui maturò quell’evento.
Tarantino è uno dei partecipanti alla spedizione per Crispiano presente anch’egli al fatto ed era proprio a fianco di Mastronuzzi quando questi fu colpito. La testimonianza di Tarantino è la più efficace a rappresentare quel clima perché è intrisa della retorica tutta fascista della bella morte necessaria per creare il mito dell’eroe e martire. Racconta Tarantino di un giovane Mastronuzzi che urla “Sono ferito…sono ferito…Il secco crepito delle armi assassine non cessava; ma non poteva distoglierci: con amorosa cura recammo il compagno sul ponte di pietra. Dalle labbra esangui non sfuggiva un grido, né un lamento, il volto infantile del pallido chiarore, senza una contrazione dolorosa, era bello. Bello sublime come solo si può essere nell’attimo del martirio glorioso. Sembrava pallido eroe giovanetto delle mille leggende italiche”. È il mito della bella morte dannunziana che i fascisti fanno proprio, quello evocato dal Divino quando commemorando la partenza dei Mille dallo scoglio di Quarto aveva evocato gli eroi ateniesi di Maratona e Micale parlando di “nuda devozione alla morte”. È il mito della retorica tutta fascista del “kalos kai agatos”: bellezza, giovinezza, virilità, che consegnano all’eternità, alla gloria, alla conservazione della memoria. È il mito di Achille di una vita breve segnata dalla gloria di una morte prematura sul campo di battaglia. Il corpo di Mastronuzzi è bello perché ha fatto una bella morte in nome di ideali fascisti che lo hanno portato al sacrificio di sé. In verità il povero Mastronuzzi non era nulla di tutto questo poiché certamente non voleva né cercava la morte. Su questo Matichecchia dice una cosa vera laddove a pag. 22 esprime la considerazione che il giovane Mastronuzzi, pur appartenendo a quella generazione di arditismo turbolenta e irrequieta sfiorata dalla guerra, “Non ha alcunchè che ne possa fare volutamente un eroe, un martire. Una pallottola verso un insieme di squadristi non indirizzata specificatamente a Mastronuzzi lo uccide casualmente”.
E a sostegno di questa sua convinzione che Mastronuzzi in realtà è un eroe per caso, un martire suo malgrado o come si direbbe oggi un eroe a sua insaputa, Matichecchia chiama a conforto il Mario Isnenghi del “Tragico controvoglia” nel quale Isnenghi riferendosi ai fatti tarantini dell’8 maggio del ‘21 parla di “chi, con tale morte viene sottratto all’indistinto, diviene riconoscibile con un volto, una figura e un significato meritevole di onori e di una memoria perdurante nel tempo”. Il “tragico controvoglia” appunto di chi “senza volontà e meriti personali è costretto a recitare la parte del “martire della rivoluzione fascista…. dell’eroico fascista, del possibile modello di giovane eroe in camicia nera”. “Insomma - conclude Matichecchia - la morte lacrimata e sacra di Mastronuzzi serve per legittimare e rendere credibile la violenza squadrista del fascismo”.
I funerali di Mastronuzzi sono degni di un eroe. La salma del giovane, avvolta nel tricolore, è esposta ai visitatori nella sala mortuaria dell’ospedale civile, la città viene tappezzata di manifesti listati a lutto fatti affiggere dalle organizzazioni fasciste e dal Sindaco Pasquale Delli Ponti, il gonfalone del Comune con le guardie municipali in grande uniforme, l’arcivescovo mons. Mazzella che benedice solennemente la salma, la bara portata a spalla dai camerati con la banda cittadina che percorre le vie del Borgo con vessilli, gagliardetti e tricolori con lo stemma sabaudo, chiusura delle saracinesche dei negozi, bandiere italiane abbrunate sui balconi e pioggia di fiori al passaggio del feretro, la sosta in piazza Archita con l’elogio funebre dell’avv. Luigi Perrone, dell’avv. Pasquale Imperatrice, dell’on. Francesco Troilo e di altri illustri personaggi.
La stampa dell’epoca, locale e nazionale, riferisce che ci fu “una grande partecipazione di popolo”. Nel processo che si tiene subito dopo la magistratura sposa la tesi della responsabilità dei comunisti nella morte del giovane Mastronuzzi e condanna Francesco Caricato, Antonio Cosa, Giovanni Cosa, Pietro Paolo Cosa, Stefano Di Maso, Giacomo Latanza e Giuseppe Lombardi tutti comunisti a 10 anni, 9 mesi e tre giorni di reclusione, due anni di sorveglianza e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il 20 giugno 1921 il Consiglio comunale sancirà in una delibera la versione ufficiale della magistratura “il giorno 8 maggio u.s. lo studente fascista Domenico Mastronuzzi venne barbaramente ucciso da sicari comunisti”. Successivamente lo stesso Consiglio comunale deciderà di intitolare l’attuale piazza Archita a Domenico Mastronuzzi.
Negli anni successivi per tutta la durata del regime l’8 maggio di ogni anno si svolgeranno le celebrazioni in ricordo del “giovane studente fascista Domenico Mastronuzzi barbaramente ucciso da sicari comunisti”. Fin qui la vicenda Mastronuzzi. Ma ecco che col secondo capitolo Matichecchia dà luogo al primo degli stop and go di cui parlavo prima. Facendo un passo indietro, l’autore racconta la Taranto prefascista e ricostruisce minuziosamente il clima di tensione, gli scontri con i rossi, i fatti del ’19-21 legati alla crisi economica e sociale che risente della crisi post-bellica, la complicità e l’accondiscendenza delle classi borghesi e dello Stato fino all’imporsi anche a Taranto del regime. A Taranto, a differenza di quanto accade a livello nazionale, il fascismo atterra senza particolari traumi anzi accompagnato da manifestazioni di consenso (anche della Chiesa) che permettono il passaggio dal vecchio al nuovo sistema in maniera indolore. Il 20 novembre 1920 viene eletto Sindaco Pasquale Delli Ponti esponente della vecchia classe dirigente cittadina liberale che governerà fino al 18 ottobre del 22 quando cederà il suo scranno al sindaco Giovanni Spartera il quale, ripescato dal regime, sarà nominato primo podestà di Taranto dell’era fascista. Anche a Taranto quindi come nelle altre parti d’Italia il fascismo si afferma attraverso il consenso della piccola e media borghesia impiegatizia e delle professioni, di militari, reduci, ex arditi fiumani e con la tacita complicità delle autorità di polizia che chiudono volentieri un occhio sulle imprese dei fascisti locali contro le sedi dei partiti della sinistra.
Lo stop and go continua riprendendo, dopo la narrazione dei fatti tarantini, quella dei fatti nazionali, l’avventura di Fiume e i suoi legami con l’arditismo tarantino del quale sono partecipi lo stesso Mastronuzzi, Nicola De Benedictis, Augusto Bassi, Giuseppe Borsari e tanti altri che Matichecchia elenca puntualmente, la marcia su Roma, le elezioni amministrative del 1920 a Taranto e l’affermazione del Fascio costituzionale in cui confluiscono la Pro Taranto e la Democratica dei soliti noti che da esponenti della vecchia classe liberale si apprestano a diventare trasformisticamente esponenti del nuovo regime, l’affermarsi a livello nazionale del nuovo regime con Mussolini al governo del Paese, l’impero, fino al baratro della guerra e al crollo finale.
Ma questa è un’altra storia, quella triste di un regime che ha portato l’Italia al disastro della guerra e alle migliaia e migliaia di italiani morti sui campi di battaglia in Africa e in Russia che probabilmente non sapevano neanche perché si travasassero in quei luoghi.

Mario GuadagnoloIl regime a Taranto e il delitto Mastronuzzi, in “Taranto Buonasera”, Anno XXIX, 14 luglio 2021, n. 133, p. 18.



Matichecchia e gli anni del fascismo tarantino

Rosario Quaranta
Storico


Segnaliamo con piacere l’ultima fatica di Guglielmo Matichecchia, giornalista pubblicista, socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia - sezione di Taranto e già benemerito dirigente scolastico: “Nella Storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino”, edito da Scorpione editrice di Taranto.
L’autore ha già avuto modo di presentarsi all’attenzione degli studiosi e del pubblico con un corposo saggio sulla vita socio-politica e culturale tarantina degli anni fervidi tra Otto e Novecento che videro tra i protagonisti più attivi il parlamentare Federico Di Palma cui è dedicata una delle vie principali della città ionica. Ora, quasi a voler riprendere il discorso troncato a seguito di quella immatura morte (1916), egli punta la sua attenzione, con la medesima passione e competenza, alla Taranto degli anni che seguirono e cioè agli anni del periodo fascista. E lo fa partendo da un episodio violento, maturato nel difficilissimo clima che ai primordi di quella esperienza si era creato in città, tra fautori e oppositori della nuova stagione politica; ossia l’uccisione per un colpo di arma da fuoco, venuto da parte avversa in modalità non del tutto chiarite, di Domenico Mastronuzzi (8 maggio 1921), giovanissimo e ardentissimo Propugnatore del Fascismo.
Un episodio che non solo porterà nella città un clima di violenze e di terrore, ma che verrà accortamente strumentalizzato, mitizzato e veicolato anche al di fuori del territorio tarantino (e finanche in America) dalla locale classe politica fascista per accrescere il proprio potere.
Una sorta di antefatto, narrato meticolosamente dall’autore, che si pone alla base di un discorso ben più ampio che investe la storia nazionale lungo tutti gli anni difficili che seguirono, e che egli percorre con oggettività storica, sicurezza ed equilibrio fino alla caduta del regime.
Il volume si fregia di una lusinghiera presentazione di Giovangualberto Carducci, presidente dalla sezione tarantina della Società di Storia Patria per la Puglia, che evidenzia pure nell’autore “l’eleganza di una narrazione equilibrata ed efficace che colloca in nota (senza per questo sacrificarlo) il dettaglio erudito del dato”.
La magistrale prefazione di Vittorio De Marco, ordinario di Storia contemporanea all’Università del Salento, pone in risalto la capacità dell’autore di utilizzare sapientemente gli aspetti locali e di cronaca propri dell’episodio Mastronuzzi, facendo della sua vicenda “il filo rosso per seguire la nascita e l’evoluzione del Fascismo locale e la storia della città fino all’armistizio del 1943”.
Giustamente Piero Massafra, editore attento di questo volume, rileva che “nel libro, nel saggio, nel ‘romanzo’ c’è Taranto di gran parte del primo Novecento, della quale leggi senza stancarti e senza incontrare le solite cose”.
Un lavoro certamente non facile che Guglielmo Matichecchia, in sintonia pure con la sua vocazione pedagogico-didattica, ha consegnato non solo come saggio monito agli studiosi o ai curiosi, ma anche e soprattutto all’attenzione e alla meditazione delle nuove generazioni per “ritrovare la pace e ricostruire una comunità sui valori della libertà e della democrazia”.
Guglielmo Matichecchia, Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino, Scorpione Editrice, Taranto 2020, pp. 253.

Rosario Quaranta, Matichecchia e gli anni del fascismo tarantino, in “Nuovo Dialogo”, Anno LVII, 2 luglio 2021, n. 25, p. 9.




Matronuzzi, «vittima» fascista

Maristella Massari
Giornalista


Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino è il volume pubblicato da Guglielmo Matichecchia per la Scorpione Editrice, e patrocinato dalla Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Taranto.
 L'opera è stata presentata, virtualmente, dal Rotary Club Taranto, presieduto da Paolo Domenico Solito, in interclub con il Rotary Club Taranto Magna Grecia, presieduto da Fabio Ninfole. Il presidente Solito, di fronte ad un folto pubblico on line, ha introdotto l'argomento, notando tra l'altro come nel libro siano citati molti soci del Club che ha appena compiuto 71 anni di vita, ed ha presentato i relatori: il preside Giovangualberto Carducci, presidente della sezione di Taranto della Società di Storia Patria per la Puglia; il prof. Vittorio De Marco, ordinario di storia contemporanea nell'Università del Salento; il prof. Piero Massafra, editore; il preside Matichecchia, autore del libro.
   «Da loro - si evidenzia in una nota stampa - è stato brillantemente tratteggiato questo saggio, che ripercorre il Ventennio fascista nella realtà tarantina, con collegamenti con la storia nazionale, utilizzando come chiave di lettura la vicenda di un giovane in camicia nera, studente del Liceo Archita e già volontario fiumano, appena diciassettenne, colpito mortalmente nel maggio 1921 da due proiettili sul ponte di pietra, nel corso di un agguato di cui sono responsabili gli avversari politici. Mastronuzzi diventa così l'icona del martire del fascismo con riconoscimenti e celebrazioni annuali post mortem, intorno a cui si ripercorre la storia del fascismo dalla presa del potere alla sua caduta».
   Nel testo non vi sono sovrapposizioni ideologiche che comprometterebbero la ricerca della verità, affidata ai documenti e alle fonti archlvistiche ed emerografiche.
Matichecchia ha descritto la genesi del libro, in cui ha privilegiato l'uso del presente indicativo, ritenendo la storia non un patrimonio del passato, ma una ricchezza sempre viva.

(Maristella Massari, Mastronuzzi “vittima fascista”, in “La Gazzetta del Mezzogiorno” - Edizione “La Gazzetta del Salento. Brindisi, Lecce e Taranto”, Anno CXXXIV, 21 febbraio 2021, n. 51, p. XXVII)



Matichecchia riaccende 
la memoria collettiva
del giovane Mastronuzzi


José Minervini
Presidente 
Società Dante Alighieri 
Comitato di Taranto


   L’8 maggio del 1921 - quasi un secolo fa - sul far della sera, Domenico Mastronuzzi, uno studente del Liceo classico Archita di diciassette anni (ne avrebbe compiuti diciotto a settembre), appassionato legionario fiumano travolto, come tanti giovani della sua età, dall’entusiasmo per il fascismo in inarrestabile ascesa, fu ucciso da un colpo di pistola in un agguato a porta Napoli da avversarî politici, mentre coi suoi amici si stava recando a Crispiano per una manifestazione fascista.
   Al di là delle interminabili discussioni sull’identità di chi si macchiò del crimine, enorme e corale fu la reazione della nostra città, giustamente sdegnata e abbrunata a lutto, subito solidale con la famiglia di Domenico. Ne danno ampia testimonianza la raffica di articoli pubblicati e le numerose foto della cerimonia funebre del giovane morto ammazzato.
   Ebbene, in quel periodo turbolento e tempestoso al nero di seppia, fra scazzottate e pistolettate (senza parlare dei famigerati beveroni di olio di ricino), Mastronuzzi, giovane perbene e di ottima famiglia tarantina, divenne ben presto simbolo, emblema e mito di giovinezza eroica avvolta nel Tricolore, innalzato sugli altari della “mistica” del fascismo, strumentalizzato ed evocato a ogni anniversario con dispiegamento di tutto il bric-à-brac del regime: gagliardetti, fasci littorî, sventolio di bandiere, eia eia alalà, fino alla consacrazione definitiva di Roberto Farinacci, giunto a Taranto nel 1925 per rendere onore a Domenico Mastronuzzi. Giusta di glorie dispensiera è morte, direbbe Foscolo, “ça va sans dire”.
   L’eco del giovane, in una città inquieta come la nostra per la povertà e la disoccupazione, si affievolì a poco a poco con la caduta del fascismo e il suo ricordo divenne, col passar del tempo, sempre più fioco e condannato alla “damnatio memoriae”. Infatti il nome di Mastronuzzi fu cancellato dalla piazza che ritornò a chiamarsi Archita e così pure una strada di Statte, intestata anche questa al giovane nella foga del dolore e del giusto sdegno per la sua morte assurda e ingiusta, ritornò a essere chiamata Leonardo da Vinci. “Sic transit…”.
   Ad aver acceso la memoria risvegliando mai sopiti dolori fu, nel 2013, la nipote di Domenico Mastronuzzi, la figlia del fratello, cioè la preside Angela Mastronuzzi che, intrecciando memoria familiare e memoria collettiva, scrisse il romanzo “Alhambra” con struggenti inflessioni liriche, ispirandosi alla storia della sua famiglia duramente segnata da questo lutto. Ora un bel saggio del preside Guglielmo Matichecchia, storico e giornalista, pubblicato da Scorpione un mese fa, conferisce a Domenico Mastronuzzi il giusto rilievo storico e umano nel contesto cittadino e in una prospettiva nazionale, non solo municipale. Il saggio s’intitola “Nella storia del regime- Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino” e si avvale della presentazione del preside Giovangualberto Carducci, presidente della Società di Storia Patria - Sezione di Taranto (che ha patrocinato la pubblicazione), della prefazione del professor Vittorio De Marco, ordinario di Storia contemporanea dell’Università del Salento, e della postfazione dell’editore, il professor Piero Massafra che si aggiudica un asso vincente con la pubblicazione di questa importante opera di storiografia; importante perché scientifica, cioè supportata da documentazione e argomentazioni probanti, e intellettualmente onesta; la bibliografia è sterminata e le note contrappuntano la narrazione dei fatti aggiungendovi spessore scientifico, mentre le citazioni letterarie, sempre appropriate, scandiscono piacevolmente il ritmo della prosa dimostrando la cultura ad ampio raggio dell’Autore.
   Un’opera importante, dicevo, di cui si è già scritto, ma noi torniamo a parlarne data l’occasione della presentazione virtuale - organizzata dal Rotary club Taranto in collaborazione con il Rotary Taranto Magna Grecia - che si terrà il 12 febbraio prossimo in streaming.
Matichecchia ha avuto il merito di aver scandagliato accuratamente e con accorti specilli un periodo controverso della storia, senza preconcetti o condizionamenti di alcun tipo e senza cedere alla tentazione - che pure sarebbe stata legittima, data l’età del giovane - di indulgere al patetico e all’elegia del “funere mersit acerbo”. Per far questo, per essere obiettivo e onesto con se stesso e con il lettore, Matichecchia ha cercato, studiato e compulsato numerose fonti e tutta la folta pubblicistica del tempo. Così è riuscito ad arrivare alla conoscenza e alla verità dei fatti, anzi è entrato, per meglio dire si è calato manzonianamente nel cuore vivo dei fatti e dei personaggi e li ha disseppelliti per amore della storia e per amore della città che, per essere amata, deve essere conosciuta nelle sue tormentate vicende storiche.
   Il titolo è significativo: “Nella storia del regime”. Appunto: “Nella”, cioè “dentro” la storia. Di tutto quel garbuglio che fu la storia di Taranto e d’Italia, dal primo dopoguerra al “biennio rosso”, dal Ventennio alla fine della seconda guerra mondiale, Matichecchia ha preso un bandolo - la vicenda di Mastronuzzi - intorno al quale ha avvolto il filo spinoso degli avvenimenti. E la vita folgorante ma breve del giovane e il ricordo che di lui ebbe la città in orbace è vista di pari passo con la storia collettiva. Taranto è sullo sfondo e poi in primo piano, ma sempre in prospettiva nazionale. Di tutti questi fatti storici Matichecchia ha scritto pacatamente, come è nel suo stile di uomo e di professionista, riuscendo a tenere alta l’attenzione del lettore perché la sua scrittura, chiara e fluida, sempre avvincente come un romanzo, nonostante la materia ostica che scotta ancora le mani, è quella, certo, dello storico serio, che ha già dato luminosa prova di sé nel saggio di qualche anno fa su Federico De Palma, ma anche del giornalista.
   Infatti, proprio con taglio giornalistico, Matichecchia inizia “in medias res”, dalla cronaca di quella “funesta domenica” del “maggio di sangue” al susseguirsi concitato degli avvenimenti; e poi, con flash-back, illustra gli avvenimenti nodali degli anni prima e durante la guerra, il sacrificio dei tarantini caduti per la Patria, la vittoria mutilata, l’avventura di Fiume con quel maliardo di D’Annunzio, il precipitare inesorabile verso il fascismo, prodigo di “illusioni, inganni e miti”, e poi, dopo la morte di Mastronuzzi che funge da spartiacque di questa storia , i primi anni del regime, gli anni Trenta, la guerra e la caduta del fascismo e delle illusioni gonfiate dalla retorica; una storia ricca di nomi della storia nazionale, ma anche locale, da mons. Mazzella a mons. Bernardi, da Criscuolo a Imperatrice, da Spartera a Voccoli, da Mandragora a Magnini e così via citando.
   Matichecchia pone attenzione scrupolosa agli echi e alle risonanze che tutta questa storia ha avuto sulla nostra città ferita a sangue quella tragica notte dell’11 novembre 1940, così la “storia” si dilata nella “Storia” vista dalla prospettiva di Taranto, una città che era paradigma di tutta Italia. Non solo: leggendo il libro, possiamo capire la generazione di Mastronuzzi, una generazione di giovani lungo la linea tricolore che inizia dal cuore del Risorgimento, e a sbalzi e a scossoni, va diritta a Fiume; erano giovani idealisti, delusi e arrabbiati per la “vittoria mutilata”, giovani che sognavano la gloria sui campi di battaglia per amor di Patria, desiderosi di cambiamenti e impazienti di scrostare la muffa che copriva le istituzioni del tempo; una generazione ingannata dalle trombe reboanti della retorica e per tanti versi ingenua; ma così, grazie a Matichecchia, possiamo mettere a fuoco le ragioni, le cause economiche e morali che spinsero tanta gioventù, cresciuta in un clima guerresco, a diventare fascista e a farsi accecare e travolgere da miti che la sprofondarono nella tragedia della guerra. E Matichecchia ce lo fa comprendere con la simpatia e la comprensione dell’uomo di scuola verso i giovani, che sempre, di generazione in generazione, hanno acceso la loro vita di grandi ideali poi spenti dalla severità della vita reale.
   Certo, quella di Mastronuzzi fu una vita sacrificata e chi se lo pianse veramente a calde lacrime fu la mamma sua, Anna Bianculli, che si chiuse nel suo dolore muto, nuova icona di Mater dolorosa in versione jonica. Davanti a quel dolore, ancora oggi restiamo in rispettoso silenzio meditando sulle mutevoli e umane sorti travolte dal vento tempestoso della storia.
   Siamo allora grati all’Autore, anche per questa nuova opera che arricchisce le nostre conoscenze e aggiunge una tessera aurea per completare il mosaico storico della nostra città. Un’ultima cosa: Guglielmo Matichecchia ha dedicato il suo saggio alle “tre donne benedette” (a voler citare Dante) della sua vita: la madre Filomena, la moglie Maria Rosaria Cagnazzi (che ha redatto il lungo indice dei nomi) e la nipotina Anna, speranza di continuità della memoria e di un futuro migliore per i giovani, che non richieda loro sacrifici e martirî. “Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi” scrisse Brecht in “Vita di Galileo”, ma doppiamente sventurato anche quello che dimentica la sua storia, perché un popolo senza memoria non ha futuro, ma va incontro ai rischi di nuovi errori e nuovi pericoli.

(José Minervini, Matichecchia riaccende la memoria collettiva del giovane Mastronuzzi, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 12 febbraio 2021, n. 28, p. 15)





Nella storia del regime


Stefano Vinci 
Università degli Studi 
"Aldo Moro" - Bari

Il titolo ben appropriato dell’opera di Matichecchia consente al lettore di compiere immediatamente un viaggio nel passato, reso vivo non soltanto dall’appassionata descrizione dei fatti – arricchita da aulici richiami letterari - ma soprattutto grazie alle numerose citazioni tratte dai giornali dell’epoca, locali e nazionali (La Voce del Popolo, L’Ora Nuova, ‘U Panarijdduzze, Il Corriere della Sera, Il Popolo d’Italia) che testimoniano il rigore del lavoro di ricerca svolto dall’Autore, corredato da una puntuale bibliografia richiamata nelle note a piè di pagina.
   Il volume, che riflette un’idea pienamente matura di storia, ci accompagna per mano in questa tragica pagina di storia tarantina che racconta non soltanto la vicenda che colpì Domenico Mastronuzzi, giovane studente ucciso da un colpo d’arma da fuoco l’8 maggio 1921 nel corso di uno scontro tra fazioni politiche opposte, ma per il suo tramite descrive con particolare acribia e sensibilità la Taranto del ventennio fascista, con i suoi eccessi e le sue contraddizioni.
   La scelta del tema - sicuramente coraggiosa - costituisce un valore aggiunto all’opera ed al suo Autore, il quale è riuscito a dimostrare spiccata sensibilità storica nell’affrontare una vicenda calata in un contesto politico difficile, senza farsi trascinare in opinioni e giudizi, pur riuscendo nell’impresa di disegnare un panorama completo e variegato di un periodo di grandissimo interesse per la storiografia più recente.
   Ricco di richiami alle principali vicende nazionali che costituiscono delle pietre miliari per il lettore (dall’impresa di Fiume, a cui il giovane Mastronuzzi prese parte ancora sedicenne, al primo governo Mussolini, dalla guerra d’Etiopia alla promulgazione delle leggi razziali), i sette capitoli che compongono il volume consentono di conoscere i principali luoghi (piazze, strade, teatri) e i protagonisti del Ventennio tarantino (vescovi, uomini politici, giornalisti, scrittori) di cui Matichecchia fornisce una straordinaria descrizione. In questo modo si intrecciano la storia politica, culturale, economica ed urbanistica della città, che vede negli anni che seguirono la morte del povero studente avvicendarsi ricordi e celebrazioni, accompagnate da foto d’epoca e puntuali citazioni che conducono fino a New York.
   E così nella trama principale se ne innestano tante altre: quella delle forze politiche che accompagnarono gli anni del fascismo tarantino, quella degli uomini che tennero il governo della città e della diocesi, quella dell’élite culturale. Tra i tanti nomi, si incontrano quelli degli illustri tarantini Alessandro Criscuolo, Francesco Rochira, Vincenzo Fago, Liborio Tebano e tanti altri ancora.
   Il volume di Matichecchia va quindi al di là del racconto stesso che contiene, in quanto diviene una fonte preziosa di notizie e di riferimenti per chi intende approfondire quel particolare periodo storico ed avventurarsi nei meandri delle fonti archivistiche, emerografiche e bibliografiche sull’argomento.
   A testimoniare il valore dell’opera contribuiscono la presentazione, prefazione e postfazione affidate alle penne di Giovangualberto Carducci, Vittorio De Marco e Piero Massafra, le cui pregevoli annotazioni forniscono gli opportuni strumenti di lettura per un viaggio così articolato.

(Stefano Vinci, Nella storia del regime, in “Lo Jonio”, 6 febbraio 2021, n. 172, p. 39)






Gli anni del fascismo tarantino 
nel racconto di Matichecchia

Lucio Pierri
Presidente 
Amici del Castello Aragonese
Taranto


   Il Profeta esorta a passare in preghiera metà della notte, o più di meta della notte, accorciando le ore del sonno o prolungano il riposo del mattino. Gugliemo Matichecchia, che è cristiano e uomo di vastissime letture, veglia la notte con suoi amati libri e il computer.
   Per ragioni di spazio e praticità preferisce le versioni digitali alla carta stampata, in pochi anni ha accumulato una fornitissima biblioteca, prediligendo gli argomenti storici, letterari, tarantini.
Attingendo a piene mani dal suo tesoro ci ha regalato una splendida monografia: “Nella storia del regime - Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino”, Scorpione editrice 2020.
   Il volume prende le mosse dalla vicenda della morte del giovane Domenico Mastronuzzi, ucciso il giorno 8 maggio 1921 da un colpo di fucile nei pressi del Ponte di Pietra, mentre attendeva con altre camicie nere un camion che deve portarlo a Crispiano per una spedizione punitiva contro alcuni comunisti, rei di aver aggredito due giovani fascisti del luogo.
   Il racconto poi si snoda attraverso le molteplici vicende della Grande Guerra; l’avventura fiumana, che vide lo stesso Mastronuzzi appena adolescente unirsi alla spedizione di Gabriele D’Annunzio; il consolidarsi del regime fascista, gli anni del consenso e la fondazione dell’impero, per poi soffermarsi sulla crisi del regime, le leggi razziali, l’entrata in guerra e la catastrofe finale.
   Filo rosso della narrazione, anno per anno, le celebrazioni dell’anniversario della morte del giovane Mastronuzzi, assurto a mito eroico della gioventù fascista.
   Nel dipanarsi di questa trama è difficile inquadrare l’opera di Matichecchia, che si muove tra la cronaca e il saggio storico, in un genere letterario definito.
   Penso che la migliore definizione che si possa dare è quella di Storia Morale. Sì la sua è una storia morale nel senso più alto del termine. Una storia caleidoscopica, espressa attraverso il pensiero delle più eminenti figure di pensatori che vissero o studiarono quelle vicende, le storie individuali dei protagonisti, le cronache cittadine e quelle del regime, gli avvenimenti politici, militari ed economici che sconvolsero il modo nella prima metà del secolo.
   Nel suo narrare, nei commenti, nelle riflessioni espresse da Matichecchia, si sente l’educatore dei giovani, la sua dirittura morale. Il suo è un giudicare pacato e comprensivo, anche se a volte ironico ed amaro, di quei lontani avvenimenti.
   Si potrebbe anche parlare di storia corale, tante sono le citazioni inserite nel testo. Non per niente la bibliografia citata e letta da Matichecchia supera i duecento titoli. Accanto ai Mazzini, Gioberti, tanto per fare qualche nome autorevole, Benedetto Croce, Gramsci, Calamandrei, De Felice, i nostri Nistri ed Acquaviva, ecc. troviamo la più minuta umanità protagonista di quella storia: politici, giornalisti, gerarchi e gerarchetti in conflitto per la gestione del potere locale, i giovani fiumani, gli operai dei Cantieri navali e dell’Arsenale.
   A tutti Matichecchia dà voce, li inserisce nel suo narrare, fa propri i pensieri e i giudizi.
Di ogni riunione, di ogni adunata, Matichecchia annota i presenti, citati nome per nome in nota, i discorsi fatti, lo sfilare in processione, gli applausi, o il clima austero di cordoglio, le divise, i vestiti.
   Si crea così una narrazione suggestiva, che porta il lettore a vivere l’atmosfera del tempo, con una empatia verso i protagonisti. Anche verso quelli più discutibili si avverte una umana comprensione, un giudizio distaccato che perdona e comprende debolezze e miserie proprie dell’umano agire.
   Avvenimenti lontani, si direbbe. Poi, almeno per quelli della mia età, ecco apparire luoghi e personaggi noti. Figure sbiadite nel ricordo infantile che si ripresentano in una veste nuova, spesso inaspettata. Nella loro autenticità storica.
   Anche i monumenti hanno la loro parte corale, di essi si ripercorre la storia, con particolare attenzione alle opere dei grandi architetti: Bazzani per il Palazzo delle Poste, il Banco di Napoli, La Banca d’Italia, Palazzo del Fascio, edificio dei Salesiani; Brasini per il Palazzo del Governo e la palazzina comando dell’Idroscalo Bologna. Non mancano i riferimenti alla vita culturale della città e ai suoi protagonisti: Fago, Tebano, i fratelli Rizzo ecc.
   E quanta storia che riguarda i luoghi! Le adunate in Piazza Archita, allora Piazza Domenico Mastronuzzi. Lo sfilare della processione in ricordo del giovane martire dalla casa natia in Via Cavour alla piazza dove si svolgeva annualmente la cerimonia commemorativa, e poi al Ponte di Pietra, dove il giovane cadde colpito da fuoco nemico nel maggio 1921.
   In quella casa in via Cavour, dalla finestra incorniciata da due basse colonne, ci sono andato diverse volte da ragazzo, ho conosciuto e frequentato la sua famiglia, senza aver contezza di quegli avvenimenti. La narrazione di Matichecchia ha un andamento filmico, non per l’apparato iconografico del volume, assai modesto, quanto per la dovizia dei particolari scenografici, l’analisi psicologica dei personaggi, l’avvicendarsi sulla scena dei protagonisti, i loro discorsi, a volte riprodotti nella loro interezza.
   Straordinaria la rievocazione della visita del gerarca Farinacci a Taranto nel 29 settembre 1925, per la inaugurazione della lapide “al caduto fascista Domenico Mastronuzzi”, murata sulla facciata del Palazzo degli Uffici.
   Matichecchia parte dai giornali dell’epoca che annunziano il fausto evento; segue la descrizione delle virtù del gerarca e del suo ruolo all’interno del regime, i febbrili preparativi per l’organizzazione della visita, il compiacimento dei giornali per la “mirabile organizzazione”, il contributo dato dalle autorità locali, dai funzionari governativi e militanti politici. Segue la descrizione dell’arrivo in città del gerarca il giorno precedente la cerimonia, gli applausi; il corteo che si snoda per le vie della città, a piedi da Via Leonida, dove Farinacci scende dall’auto per mettersi alla testa del pellegrinaggio, verso Piazza Mastronuzzi; la sera, il ricevimento di gala in Prefettura con le massime autorità cittadine.
   Si arriva così finalmente al giorno fatidico del 29 settembre per la inaugurazione della lapide. Nel palco d’onore “con il gerarca, le più alte cariche provinciali del partito fascista in pompa magna, l’anziana e addolorata madre e tutti i familiari di Domenico Mastronuzzi”.
   Nella piazza i picchetti delle forze armate, i gagliardetti, le camicie nere, avanguardisti, Balilla, i rappresentati delle associazioni combattenti, dei mutilati, dei Sindacati operai, della Milizia.
   Dopo gli interventi di rito, al culmine della rappresentazione, il discorso di Farinacci, che si proclama “sacerdote” della nuova fede fascista. Roboante retorica dei meriti e del programma del nuovo regime, che si vuole consacrato dal sangue e dall’eroismo di quei giovani, come Mastronuzzi, che senza esitare tutto hanno abbandonato, famiglia, scuola e affetti, per correre in aiuto della Patria, combattendo e morendo “sotto una Camera del lavoro o sotto le cooperative rosse”.
   Anno dopo anno Matichecchia, dal 1919 al 1943, sul filo conduttore delle celebrazioni del regime per la morte del Mastronuzzi, scrive la storia di Taranto; città, per la sua importanza militare ed industriale, all’epicentro della vita politica della nazione. Una documentata riflessione su un periodo triste della storia che vide una intera generazione, soprattutto i giovani, ingannati dai falsi miti di un regime totalitario. Valgano a giudizio le parole di Pietro Calamandrei.
   “Nel dramma del fascismo, la sorte dei giovani è stata indubbiamente la più commovente e la più patetica: cresciuti in una atmosfera guerresca riscaldata dai sacrifici e dal valore dei padri e dei fratelli, questi ragazzi erano ossessionati dal rammarico di essere nati troppo tardi per avere dalla guerra la loro parte di gloria: sicché quando una oratoria forsennata li chiamò a raccolta per la guerra civile, annunciando loro che la patria era ancora da salvare e che anche per loro c’erano gesta eroiche e gloria da raccogliere, balzarono su, poveri ragazzi, collo stesso impetuoso ardore con cui, men di dieci anni prima, i loro fratelli maggiori erano partiti per liberare Trento e Trieste”.
   Insomma un libro da non perdere, un altro prezioso contributo di Matichecchia alla storia d’Italia e della nostra città.

(Lucio Pierri, Gli anni del fascismo tarantino nel racconto di Matichecchia, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 5 febbraio 2021, n. 23, p. 15)






Neri contro rossi e quel corpo lasciato sul ponte di pietra

Anita Preti
Giornalista


   Non ha ancora raggiunto l'alto balcone di un palazzo romano, in piazza Venezia, quell'uomo corpulento nato in una delle più veementi terre d'Italia, la Romagna. E' un maestro elementare con la passione per il giornalismo che può limitarsi per ora solo a sognare una conquista, di quelle che si compiono impiegando capitale umano. Sarà la sindrome di Giulio Cesare, il condottiero, il dux, sì il Duce. Ma non si parli di conquiste, diamine sono solo "ideali" da far valere. Gli è che gli ideali qualche volta scappano di mano, si ingigantiscono e diventano de1 mostri. Benito Mussolini, appena conclusa la prima guerra mondiale, sta sognando di inquadrare l'Italia e gli italiani (fin dalla nascita) secondo un suo schema (l'arcinoto: Figli della lupa, Balilla, Piccole Italiane, Avanguardisti, Giovani Italiane, Giovani Fascisti, Gruppi universitari fascisti, e poi via via, dalle tenere Donne Rurali ai temibili Squadristi). Ci riesce e se li pappa tutti in un sol boccone gli italiani pronti a giurargli fedeltà (non poteva andare diversamente, sarà la giustificazione degli adepti). Tutti meno qualcuno. Gli anarchici, i cattolici di prima impronta, i socialisti e i prossimi comunisti (il 21 marzo 1921 nasce il Pci).
   Soprattutto loro, quei dannati bolscevichi, "perché a Taranto", scrive La Voce del Popolo, il giornale più letto, "non ci sono operai socialisti ma masse di comunisti contro cui bisogna stare con le armi ai piedi". Ci pensa il Fascio. E dopo ci pensa lo storico Roberto Nistri a rinfrescare la memoria nel saggio "Mentre nasce e muore un impero romano" che apre il volume "Taranto da una guerra all'altra" (Mandese editore).
   Nell'albergo Aquila d'oro, l'8 novembre 1920, si tiene la prima riunione ufficiosa del Fascio, consacrato poi da una più folta presenza, all'Orfeo.
In un battibaleno i Fasci diventano Fasci di combattimento. Comincia la caccia all'uomo. E così inizia anche la storia dei vincitori e dei vinti. Ma tra i loro caduti non c'è differenza, il sangue è sempre rosso e odora di violenza. La più leggera si chiamerà olio di ricino, poi si passa alle armi. Taranto è messa a soqquadro. La città non se la bene quando germoglia la malapianta del fascismo. Fin troppo generoso Italo Balbo, l'asso del volo, uno dei quadrumviri della Marcia su Roma, nel descriverla. mentre la sorvola, bella come una sirena. Ma le cose vanno diversamente se la storia la si guarda dal basso e non dalla carlinga di un aereo. Si combatte per le strade per un pezzo di pane, per la fame di lavoro che serve a tacitare la fame vera. Scontri continui e cariche delle forze dell'ordine. Innocente viene colpito a morte un bambino sul Ponte Girevole.
   Invece sull'altro Ponte. Quello di Pietra, non molto tempo dopo. viene colpito a morte uno appena più grande, un ragazzo. Ma questa volta l'assassinio, perché di questo si tratta, ha fondamenti politici. L'uccisione di Domenico Mastronuzzi si situa al centro del nuovo libro di Guglielmo Matichecchia "Nella storia del regime", fresco di stampa da parte di Scorpione Editrice. Un libro fondamentale che vanta una presentazione di Giovangualberto Carducci, presidente della sezione di Taranto della Società di Storia Patria per la Puglia; la prefazione di Vittorio De Marco, docente di Storia contemporanea all'università del Salento; e la postfazione dell'editore Piero Massafra.
   Giornalista e saggista, attento puntuale preciso studioso. Matichecchia, in quanto educatore e poi dirigente scolastico in vari istituti, bene conosce l'animo dei giovani. E con questa esperienza e con le chiavi concesse a chi fa lo storico di mestiere ricostruisce la vicenda di due ali così presto spezzate. Domenico Mastronuzzi, allievo dell'Archita, ha infatti appena 17 anni e la testa infarcita di quegli "ideali". Una sua impennata sta nell'aver voluto seguire, come tanti giovani, Gabriele D'Annunzio a Fiume. In quel delirio che. è il ventennio (o poco più) intercorso fra le due guerre mondiali i Legionari Fiumani sembreranno sempre un corpo scelto. Mastronuzzi va a Fiume con Raffaele Carrieri, Raffaele Mattioli e gli altri cervelloni che credono nel poeta, da alcuni definito il primo vero duce di una, appunto, delirante Italia.
   Ma a Taranto, come ha scritto più volte qualcuno, non comanda nessuno, solo l'ammiraglio e il vescovo. A quel tempo, s'intende. Il Fascio arranca sulle prime e solo sulle seconde invece la città si sostanzia di fascismo. Ci sono le immagini: quando il Partito raduna gli aspiranti fascisti in piazza Archita nel novembre del 1920, quando li schiera con passo marziale in via D'Aquino, quando li porta a guardare festosi il piccone che nelle mani di Mussolini avvia lo sventramento della Discesa Vasto e della zona limitrofa. Ci sono, ci sono i tarantini: per loro una scuola e un villaggio portano il nome del condottiero, per un cinema ci si limita a Dux, un teatro è detto Littorio.
   In questo clima esultante più che esaltante, Domenico Mastronuzzi si presenta all'appuntamento con altri giovani camerati. L'ora fatale è fissata nei pressi del Ponte di Pietra la sera dell'8 maggio 1921, ci sarebbe da fare un regolamento di conti a Crispiano, una spedizione punitiva. Rossi contro neri. Neri contro rossi. E mentre la città impazza al suono di bande, noccioline. palloncini, zucchero filato gli ammennicoli della festa per san Cataldo, un colpo di moschetto centra il petto di Domenico. E la sua gioventù si ferma lì.
   Guglielmo Matichecchia tiene conto, nel riportare alla luce l'episodio, della possibilità avanzata da Roberto Nistri e Luca Sardi, in un loro saggio, che quella pallottola sia partita dal moschetto in dotazione alle forze dell'ordine. Può essere. Certo è invece il clima d'odio che comunque serpeggia a Taranto, in Italia. nel mondo.
   Per raccontare la breve vita di Mastronuzzi ed il ricordo che per anni e anni la città gli ha tributato (viene persino Roberto Farinacci, segretario del Partito Nazionale Fascista) Matichecchia ha consultato archivi e biblioteche e ha riunito un'imponente bibliografia.
   L'editore Piero Massafra, nella postfazione (sottolineando come sia poi un "romanzo" questo lavoro di Matichecchia pur rispettando i canoni della saggistica), si dice meravigliato per la quantità di carte che l'autore ha dovuto cercare, consultare, leggere per evidenziare la verità storica.
  Guglielmo Matichecchia infatti non ha solo raccontato la breve vita di un ragazzo tarantino ma ha costruito, tassello dopo tassello, la storia del fascismo a Taranto Ci sono vicende e nomi. Ed è inutile ripeterli, la memoria li ha epurati e chi potrebbe ricordare ormai, gravato dall'età, fatica a farlo. Ma i nomi dei "politici" quelli si possono fare perché sedevano in Parlamento come Leonardo Mandragora, il primo Podestà. O erano di grande risonanza ed è il caso del medico umbro Milziade Magnini, segretario provinciale del Partito, appassionato collezionista di ceramiche e committente, in tanto sfacelo, di una delicata e leziosa casetta in stile veneziano che è ancora lì sul Lungomare. Per tutti gli altri, per i codardi, per i delatori che via via aumentano quando è l'ora delle leggi razziali, per i duri dell'Ovra, la polizia segreta, ma sì anche per loro. valga la pietà del silenzio.

(Anita Preti, Neri contro rossi e quel corpo lasciato sul ponte di pietra, in "Nuovo Quotidiano di Puglia - Taranto", Anno XXI, 31 gennaio 2021, n. 30, p. 12).





La memoria storica di Domenico Mastronuzzi
nell’opera di Matichecchia


Paolo De Stefano
Presidente onorario 
Società Dante Alighieri 
Comitato di Taranto


Caro Direttore,
   Benedetto Croce ha scritto: "l lavori di Storia, quando procedono in modo pensato e critico, presuppongono quel che di nuovo si crede di poter fornire per una migliore e più completa intelligenza dei fatti". (Storia del Regno di Napoli, Bari, 1943, terza edizione).
   Guglielmo Matichecchia, da par suo, ha colto nel bel volume su "Domenico Mastronuzzi nella Storia del Regime" (Scorpione editrice, 2020, pp. 253) il senso generatore di un procedimento avvertito e sicuro intorno agli anni del fascismo tarantino e, direi, jonico, legati alla figura leggendaria, illo tempore, del giovane fiumano e poi fascista Domenico Mastronuzzi, ucciso da colpi di arma da fuoco, in un agguato fra giovani seguaci del futuro fascio e giovani del partito avverso, forse comunista. Era l'8 maggio 1921. Una data che diventerà storica per il partito trionfante in Italia, e soprattutto per Taranto. Lo studente Mastronuzzi aveva solo diciassette anni "quando la vita è un sorriso e quando maggio in fiore con i suoi profumi canta la primavera" (Il Popolo jonico, il29 settembre 1925).
   Il libro del Matichecchia si avvale di una precisa presentazione del preside Giovangualberto Carducci, Presidente di Storia Patria per la Puglia, sez. di Taranto, di una prefazione di forte spessore strutturale tra la vita sociale civile e il suo riflesso politico del professore Vittorio De Marco, di una postfazione dell'editore Massafra che pone in risalto "l'iter" dell'autore nei riguardi del giovane Mastronuzzi assassinato, osannato dal futuro partito fascista, dal suo squadrismo e annullato dopo l'inevitabile disfatta del regime; il tutto senza finalità politiche o ideologiche.
   "Senza finalità politiche o ideologiche", ma attraverso un'analisi serena ed equilibrata dell'autore del libro. E, tuttavia, al di là di una superiore visione dei fatti, c'è nel lavoro del preside Matichecchia che "viget et urget" una più alta, e direi metatemporale, conduzione degli avvenimenti umani: ed è ciò che propriamente si chiede e si ricerca sotto il nome di "Storia": non della consueta ed organizzata storiografia, ma di "Storia ad morem", vale a dire, di storia morale che è, anche quando non la si riconosce, interiore lievito alla realizzazione di quella vita ideale per la quale l'uomo, nel corso dei secoli, ha lottato ora perdendo ora vincendo. Di quella Storia che, nello svolgimento delle azioni dell'uomo, non è mai "Giustiziera" ma giudicatrice ed anche il male commesso è preparatorio al bene successivamente eseguito. Di qui quel progresso che consacra l'operosità umana. Vico aveva ragione. Tutta l'opera del Maticbecchia, così precisa e così idealizzata, è opera fondamentalmente "morale". Ed è morale, perché proprio idealizzata.
   Per tal via ogni momento etico, politico, sociale e finanche religioso è sempre un momento di una superiore forza etica che è la superiore legge della vita.
   Lo storico Matichecchia, nei suoi sette capitoli intorno alla storia del regime fascista locale nell'ambito nazionale, attraverso l'uccisione del giovane Mastronuzzi, non c'è dubbio si è mantenuto in un "distanziamento ideologico" ma quel "distanziamento" è il fine e il mezzo di una congiunzione "morale" per la quale gli stessi fatti, nel bene e nel male, sono e saranno un momento di quella "Historia" che dantescamente "non erra" nel tempo dell'agire umano, nel vivo di un'epoca trascorsa (ora per allora) e pragmaticamente viva di fatti e personaggi, protagonisti o meno e che tuttavia oggi è memoria, ricordo, assoluzione e desolazione di anni che, dalla convulsa dittatura fascista nella quale si ebbero anche eroiche figure e immagini sbiadite e picaresche, operò un riscatto formativo di giustizia e libertà e che la forza della Storia consegna, al progresso umano, sempre che gli uomini sappiano conservare nel tempo.
   Matichecchia dal primo all'ultimo capitolo, con chiarezza e vivacità di stile, narra la storia quotidiana di una Taranto e della sua provincia che non poteva sottrarsi al vento politico del tempo, di una città che aveva nel giovanissimo Mastronuzzi un eroe, prima fiumano, poi fascista.
   E lo storico Matichecchia traccia, di capitolo in capitolo, dal tempo della marcia mussoliniana su Roma alla "mistica fascista" alla vittoria dell'impero sino alla disfatta della seconda guerra mondiale, alla malattia morale della eliminazione ebraica, alla rinascita della vocazione "libertà'' e alla scomparsa dalle vie e dagli edifici del nome del giovane, Mastronuzzi, eroe consacrato in altro tempo e in altra Italia; e narra, non celebra, gli avvenimenti gloriosi e meno, che furono vita di quell'epoca, ormai definita e superata.
   Di qui la bravura dello storico Matichecchia di essere al di sopra delle parti e degli uomini, e indagare, indagare anche attraverso abbondanza di note esplicative o indicative quale fu l'epoca da lui esaminata.
   La libertà di un popolo nasce da una dittatura precedentemente attuata e determinata da un disordine civile e morale della nazione, in quel lontano 1920-21.
   Un lavoro molto controllato e seriamente condotto di pagina in pagina nelle quali molti di noi si dovranno riconoscere; lo storico non condanna, né assolve, descrive, presenta quelli che furono gli anni amati prima e dissacrati dopo da un popolo calamitato e poi inesorabilmente umiliato e sconfitto.
   Nella eternità della "Historia" gli anni che vanno dal 1920 al 1946 furono "acta diurna" della vita italiana e l'opera dello storico distaccata, ma solenne, lontana e vicina, tra onori trascorsi e desolazione di un popolo.
   Un lavoro avvincente e, al tempo stesso, a mio parere da meditare pagina su pagina. Matichecchia racconta la vita di quel ventennio nel senso programmatico e attualistico del tempo, ma che è anche un "momento" dell'eterna "Storia" per la quale i fatti relativi ad una città dispiegata nella nazione, ebbero una loro significativa notorietà anche nella figura del giovane Domenico Mastronuzzi.
   Il preside Matichecchia ha compreso, nello svolgimento del suo "romanzo" che le vicende umane, hanno, attraverso i tempi, una loro giustificazione "morale e non moralistica" nella valida conseguenza che il progresso è anche motivo e forza di precedenti accadimenti tra le forze del bene e del male.
   Questo è tutto. E Matichecchia si è consapevolmente tenuto ai fatti consacrati nella visione di una "Historia" consacrata nel tempo in una città, in una nazione e altrove.
   Il lavoro nasce con il patrocinio della Società di Storia Patria della Puglia sezione di Taranto.

(Paolo De Stefano, La memoria storica di Domenico Mastronuzzi nell’opera di Matichecchia, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 19 gennaio 2021, n. 10, p. 18)







Mastronuzzi e gli anni del regime fascista


Alberto Altamura
Storico e saggista


   Se uno dei mali del nostro tempo è la rimozione della storia, questo saggio di Guglielmo Matichecchia, "Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino" (Scorpione, Taranto 2020), è invece un prezioso contributo alla riscoperta della storia della nostra città e del nostro Paese.  Partendo da un episodio particolare, vorrei dire circoscritto nel tempo e nello spazio, l'assassinio del diciottenne Domenico Mastronuzzi, impegnato attivamente nelle file fasciste, nel maggio del 1921 ad opera degli avversari politici in circostanze mai del tutto chiarite (anche se rientra in quella dinamica di azione/reazione tipica di questi eventi); Matichecchia affronta la materia in maniera efficace e documentata. Il suo è un interessante viaggio dal particolare al generale, in quanto l'episodio locale non solo non è fine a se stesso ma lo sprona ad allargare lo sguardo alla realtà nazionale, servendosi egregiamente dei mezzi che la storiografia gli mette a disposizione: saggi, documenti, giornali, fonti d'archivio. Matichecchia aveva già dato buona prova di sé qualche anno fa con il saggio assai interessante su Federico Di Palma (Scorpione, Taranto 2016) e su quella linea si è mosso per approfondire le vicende del fascismo in terra jonica e in campo nazionale. Del resto, la microstoria avrebbe un significato limitato se non si radicasse nel più vasto scenario della storia.
   Un altro aspetto importante che mi piace sottolineare e che del resto l'autore evidenzia è che questo studente liceale, legionario fiumano, come un po' accadde alla gioventù coeva, si lasciò trasportare dal clima di entusiasmo che accompagnò le nuove idee che andavano maturando nel Paese e che stavano preparando il terreno all' avvento del movimento fascista, ma in lui non va ricercato, a mio avviso, uno spessore ideologico e culturale che un ragazzo della sua età non poteva avere. L'assassinio di Mastronuzzi si inscrive in quel clima di accese tensioni, scontri e sospetti tra opposte fazioni, rossi e neri (diciamo così per comodità di linguaggio), che avvelenò il Paese nell'immediato primo dopoguerra e che acuì la situazione politico-sociale rendendola turbolenta. Sta di fatto che la morte di Mastronuzzi ebbe una grande risonanza anche a livello nazionale e i fascisti tarantini non mancarono di esaltare per molti anni la sua figura, celebrando in occasione dell'anniversario la vita e le opere, certi di accrescere il consenso e di lucrare vantaggi sul piano propagandistico ed elettorale. Ma, è giusto chiedersi: si trattò di eroismo (una parola grossa) e di vera gloria? La risposta ci viene data da uno storico rigoroso, Mario Isnenghi, uno dei migliori storici del periodo, il quale, facendo una rassegna dei morti registrati da ambedue le parti, parla di eroismo 'involontario', una morte su cui si è costituita da subito una vera e propria leggenda, un mito (l'autore dedica al tema pagine molto acute ed interessanti).
   Ebbene, Guglielmo Matichecchia affronta la materia con piglio di storico,cioè lontano da precostituiti schemi ideologici e politici, e si attiene rigorosamente ai fatti e ai documenti, che dovrebbero essere per ogni storico che si rispetti la sola base su cui sviluppare le proprie idee e la propria narrazione. In questa ottica ed in sintonia con la interpretazione di Renzo De Felice, attraversa l'intera parabola del fascismo, dalla fase nascente come movimento fino al suo costituirsi come regime (voglio dire alle inevitabili concrezioni di potere) e infine al suo inevitabile crollo, con gli immancabili riflessi sulla realtà tarantina. E riesce con lucidità di impianto ad innestare i fatti locali, studiati con rigorosa disamina e nella loro concatenazione, in quelli nazionali, creando un felice raccordo tra centro e periferia, senza sottacere che ad essere chiamati in causa sono diverse centinaia di personaggi che hanno giocato un loro ruolo ora più ora meno importante a livello locale e/o nazionale. Ed ecco che ai personaggi di livello nazionale (da Mussolini a Farinacci, da Croce e Gentile a D'Annunzio, da Badoglio a Graziani) si affiancano quelli locali, tra i quali Magnini, Russi, Carucci, mons. Mazzella, mons. Bernardi, Mandragora, Criscuolo, Voccoli e molti altri che segnarono la storia della città.
   Il volume si avvale del contributo di tre studiosi di vaglia che, lungi dallo scrivere parole di circostanza, hanno indagato in maniera egregia il carattere dell'opera ed illustrato il modus operandi di Guglielmo Matichecchia, uno studioso dedito sempre più alla ricerca storica: Vittorio De Marco, Giovangualberto Carducci e Piero Massafra.
   Aggiungo inoltre che l'editrice Scorpione arricchisce senz'altro con questa opera il suo carnet e si conferma un importante punto di riferimento culturale.

(Alberto Altamura, Mastronuzzi e gli anni del regime fascista, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 13 gennaio 2021, n. 6, p. 15)