mercoledì 5 maggio 2021

Nella storia del regime. Domenico Mastronuzzi e gli anni del fascismo tarantino: Presentazioni


INCONTRO CON IL ROTARY DI TARANTO
12 febbraio 2021

(La registrazione audio degli interventi di Giovangualberto Carducci, di Vittorio De Marco e di Piero Massafra è stata personalmente rivista dagli interessati)


GIOVANGUALBERTO CARDUCCI - Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia - Sezione di Taranto
   Per avviare il discorso su questa bella monografia di Guglielmo Matichecchia, può essere suggestivo e utile partire dalla targa bronzea affissa nel 1925 sul prospetto occidentale del Palazzo degli Uffici (per intenderci lato scuola media “Capuana”, lato Ponte Girevole). Realizzata dallo scultore Giuseppe Masi di Gioia del Colle, specialista in questo genere di produzioni (è opera sua anche il monumento ai Caduti in Piazza Vittorio Veneto a Martina Franca), la targa bronzea voleva tramandare la memoria di Domenico Mastronuzzi, ma anch’essa, neanche a dirlo, all’indomani della caduta del Duce fu rimossa dal Palazzo al pari di tanti altri simboli littori.
  Quella targa bronzea rettangolare recava in basso, per l’intera lunghezza, una palma che è la palma del martirio, simbolo tipico della tradizione iconografica cristiana, mentre, in alto a sinistra vi campeggiava un volto femminile, una testa turrita che è invece simbolo della tradizione culturale romana: è l’immagine dell’Italia potente, forte, vittoriosa! Insomma, semplicemente a guardare l’impaginazione grafica della epigrafe, subito si apprezza la commistione del cristianesimo con la classicità, del sacro con il profano, insomma della religione con la politica in una logica di contaminazione che ritornerà nelle cose che sto per dire.
   Poi c’è il testo dell’epigrafe, il testo dettato dall’impareggiabile avvocato Alessandro Criscuolo, personaggio di punta della cultura tarantina post-risorgimentale, che è un inno alla grandezza di Domenico Mastronuzzi, giovane diciassettenne, divenuto un martire (tanto più martire appunto per la sua giovane età): egli aveva alimentato dentro di sé la bellezza di un’idea, l’idea dell’Italia dai molti volti inghirlandata dai nuovi epici lauri, dantesca e forte, cioè l’Italia vittoriosa, chiaramente l’Italia del fascismo. Non per caso il Criscuolo chiama quell’idea “fede”, e lega il sacrificio di Domenico Mastronuzzi a quella fede, invisa agli ebbri del dissolvimento dell’Italia che per questo uccidono il giovane. Insomma, viene impostata la polarità tra i fautori della grandezza della patria (e ovviamente fra questi Domenico Mastronuzzi) e i nemici della patria, determinati alla sua dissoluzione, con il giovane tarantino che paga il fio di questo antagonismo. Sennonché c’è la perentoria avversativa finale, quel “ma” che risolve la polarità e ricolloca nella prospettiva della verità il martirio di Mastronuzzi, e ciò per volontà del “popolo vero” che, scrivendone il nome nel bronzo, assicura a questo figlio di Taranto la gloria imperitura.
   In definitiva, anche l’epigrafe di Palazzo degli Uffici riproponeva la centralità di fede e patria, due pilastri dell’ideologia fascista, e appunto nella loro contaminazione si fonda il mito non solo tarantino di Domenico Mastronuzzi, giovane e martire, caduto nel 1921 a 17 anni sotto le pistolettate dei sovversivi rossi. Il suo martirio è il sacrificio del precursore: egli è caduto prima della formazione del governo mussoliniano, nella fase embrionale del processo socio-politico che avrebbe portato all’avvento di Mussolini al potere, un anno e mezzo prima della Marcia su Roma. Mastronuzzi è percepito (ed è presentato) come il martire che col suo sacrificio s’immola al bene supremo della grandezza dell’Italia. Mastronuzzi da una parte, la grandezza della patria dall’altro, mentre in mezzo, protagonista sottinteso, c’è il fascismo: insomma, il sacrificio di Mastronuzzi serve e contribuisce al successo della rivoluzione fascista che a sua volta porta alla grandezza dell’Italia; il passaggio intermedio viene obliterato, e solo apparentemente sembra restare il sacrificio di Mastronuzzi per la grandezza dell’Italia, ma va da sé che con lui viene celebrato soprattutto il Fascismo che continua a lavorare e a spendersi, oltre la morte del suo giovane martire, per i nuovi irresistibili destini della Patria.
Mastronuzzi era nato nel settembre del 1903, apparteneva a una famiglia locale in vista, risiedeva a Palazzo Mastronuzzi all’inizio di Via Cavour (all’angolo con Via Anfiteatro); era studente del Liceo “Archita” e nel 1919, a soli 16 anni, si era unito ai Legionari che avevano seguito Gabriele d’Annunzio a Fiume, ed era stato poi tra i fondatori del primo fascio di combattimento a Taranto. Egli muore l’8 maggio del 1921, alla vigilia della festa patronale di San Cataldo: era domenica sera e con alcuni suoi sodali il giovane Domenico si apprestava a raggiungere Crispiano per compiervi una spedizione punitiva; c’è confusione, parte una pistolettata che lo uccide, da qui il “gentile trucidato” di cui parla il Criscuolo. L’eco dell’avvenimento è grande, l’impatto emotivo della notizia è forte; si scatena subito una rappresaglia che colpisce il capo dei socialisti tarantini, l’avvocato Edoardo Sangiorgio, poi c’è il racconto dei funerali, della vicenda giudiziaria, l’individuazione del responsabile. Questa vicenda, che segna la genesi del mito di Mastronuzzi, è trattata da Matichecchia nel primo dei sette capitoli del volume.
   Gli altri sei capitoli sono invece dedicati, ben oltre la dimensione biografica, al mito di Mastronuzzi, il mito del martire precursore del fascismo, un mito di cui si impossessano subito i quadri dirigenti locali: Mastronuzzi è stato una sorta di catalizzatore del consenso al fascismo, diventa sicuramente il simbolo nobile del fascismo a Taranto e nel Ventennio, in ogni occasione di crisi e di tensione il suo mito sempre viene rispolverato e rigenerato; le onoranze per il suo sacrificio finiscono con il diventare un appuntamento fisso per la città, al pari di altre ricorrenze religiose: nel Ventennio c’è l’appuntamento annuale con le onoranze per Domenico Mastronuzzi che si tengono appunto nella piazza a lui intitolata (attuale Piazza Archita) antistante il Palazzo degli Uffici, dove si trovava l’epigrafe bronzea di Masi e Criscuolo, e ove si svolgevano le adunanze celebrative, a cominciare da quella del 1925 in cui a scoprire la targa bronzea fu Roberto Farinacci, all’epoca numero due del fascismo.
   Matichecchia comprende bene che Mastronuzzi è il simbolo, è il martire precursore del fascismo tarantino, e perciò lo usa come una sorta di specimen, come suggerisce il titolo, per entrare, per immergersi “nella storia del regime”: seguendo il fil rouge di Mastronuzzi, Matichecchia si addentra e ricompone narrativamente tante vicende del Ventennio tarantino, valorizzando tutte le circostanze in cui quel mito riprende corpo, ora nelle onoranze, ora nei dibattiti, ora nelle manifestazioni e nelle adunanze, ora nei passaggi di cariche e di potere. La vitalità del mito di Mastronuzzi offre a Matichecchia la trama per tessere l’ordito di questa ricostruzione, questa narrazione delle vicende tarantine nel Ventennio. È il mito di cui il fascismo si appropria e nel quale si rispecchia tutta la città.
   Quali sono le opzioni di Guglielmo Matichecchia in questa ricostruzione? A me sembra che siano tre le dimensioni che egli privilegia: i vertici della vita politica amministrativa e fascista locale fatta di sindaci, potestà, gerarchi, federali, con l’incessante turn over di personaggi che si succedono nelle varie cariche e di cui è fornita minuta notizia nelle note. Quindi, la vita sociale che essenzialmente si esprime nel disagio e nella protesta nella crisi dello Stato liberale, cui Matichecchia dedica i tre capitoli che seguono il primo; negli ultimi tre capitoli, centrati sulla storia tarantina nel Ventennio, viene esplorata soprattutto la partecipazione popolare nel consenso in termini di appoggio più o meno convinto al fascismo, e comunque apparentemente sempre adeguato alle esigenze del regime (in questo ambito l’analisi dell’Autore si fa particolarmente approfondita nel tentare di sondare e focalizzare la formazione del consenso di massa, alimentato con la cosiddetta mistica fascista). Infine, l’attenzione alla vita scolastica e alla vita culturale con i vari eventi e personaggi della scuola, della cultura e della letteratura che si susseguono nella città.
   Istanza irrinunciabile e trasversale di questa ricostruzione sta nell’intreccio con la storia nazionale: Taranto non è altro da Roma, non è altro da Milano; Taranto è a Roma e Roma è a Taranto; i grandi del fascismo sono spesso nella città bimare, nel 1934 c’è la visita di Mussolini e Criscuolo fa parlare il redivivo Mastronuzzi che, salutando il Duce, dice “Benedetto il nostro martirio” e prosegue: “Non indarno morimmo, io ti porto le chiavi di tutti i cuori, sul sanguigno guanciale del mio cuore, cuore pulsante di littoria fede”. E, più in generale, in questo libro la storia del fascismo ci sta tutta, dalla Marcia su Roma all’omicidio Matteotti, dai Patti lateranensi alla proclamazione dell’impero, dalle leggi fascistissime alle leggi razziali, fino all’entrata in guerra; narrativamente vi è il continuo contrappunto tra vicende locali e vicende nazionali che aiuta a comprendere il dato locale, ma che d’altronde illumina ancora meglio il dato nazionale.
   Il risultato qual è? È questo bel libro, che si legge bene, che appaga l’erudito e che, al tempo stesso, fa alta divulgazione. Appaga l’erudito, perché gli restituisce una dovizia di dati, di nomi, di fatti, che l’Autore sa dosare nella narrazione, gestendole ora nel testo, ora nelle note, guadagnando l’equilibrio di un racconto che è sempre sobrio e si tiene sull’essenziale. E per questa via il libro attinge anche la dimensione dell’alta divulgazione, in quanto fa conoscere bene, in maniera documentata e coesa, i fatti dell’epoca. In più, questo volume testimonia un esempio di civismo, vorrei dire encomiabile. Più invecchio, più mi convinco che la conoscenza e l’approfondimento della conoscenza della storia marca la vera appartenenza alla comunità: chi conosce, chi studia la storia di un territorio, di una comunità, fa parte più profondamente di quella storia, di quella comunità, ne capisce di più il presente, ne coglie più significativamente il senso e ciò aiuta sicuramente a dare indicazioni e spunti per progettare meglio il futuro.
  Per tutto questo io ringrazio Guglielmo, lo ringrazio personalmente e lo ringrazio a nome della Sezione tarantina della Società di Storia Patria per la Puglia che ha accordato il proprio patrocinio all’iniziativa editoriale, ed è stata ben lieta di farlo giacché si tratta di un’opera pregevole che sta giustamente incontrando l’attenzione che merita. Vi ringrazio.


VITTORIO DE MARCO - Ordinario di Storia contemporanea dell'Università del Salento
   Buonasera a tutti, grazie per l’invito da parte del dott. Paolo Solito e per l’occasione che mi si offre di tornare a parlare di quest’ultimo libro del prof. Matichecchia del quale devo subito sottolineare un aspetto del suo “modus operandi”: quando scrive un libro fa un’azione molto importante che non tutti fanno: si confronta. Di quest’ultimo progetto infatti - come del precedente su Federico di Palma - ne abbiamo parlato più volte quando muoveva i primi passi ed è stato possibile seguirlo nel tempo, nella sua gestazione, nei suoi passaggi storiografici e metodologici. C’è una doppia operazione messa in atto in questo libro, due fitti strati, due palinsesti che si intrecciano : una vicenda prettamente biografica - quella del giovane Mastronuzzi - e una più ampia e complessa da verificare e raccontare che è quella del fascismo a Taranto la quale si muove a sua volta su un triplice sfondo: locale, nazionale e internazionale.
Guglielmo Matichecchia analizza gli anni del ventennio tarantino raccontando la storia di un giovanissimo fascista ucciso la sera dell’8 maggio 1921, nei pressi del ponte di pietra, mentre era con altri commilitoni che si preparavano a partire per una vicina località. Ecco trovato quindi il filo rosso per seguire la nascita e l’evoluzione del fascismo locale ma, al contempo, per seguire e raccontare la storia tout-court della città fino all’armistizio del 1943.
  Dell’omicidio di Mastronuzzi, Matichecchia fa innanzitutto una lettura attenta di come la stampa locale e nazionale ricostruisce il fatto in sé e come la storiografia lo ha successivamente letto e interpretato. L’uccisione del giovane fascista non fa che aggiungere altra tensione in una città che sta appena uscendo dal così detto “biennio rosso”.
   Nonostante che nel maggio 1921 nulla in Italia è definitivamente compromesso dal punto di vista politico, pur di fronte alla crescente pressione delle squadre fasciste e al maldestro e poco calcolato tentativo di Giolitti di “costituzionalizzare” il movimento mussoliniano, da qualche osservatore più attento, non solo locale, proprio l’episodio di Domenico Mastronuzzi, avvenuto in una zona dell’Italia sostanzialmente “periferica” dal punto di vista politico, poteva essere letto, per le reazioni locali e nazionali che aveva suscitato, e che Matichecchia ben documenta, come una spia eloquente di come e di quanto la società e la politica italiane si erano poste su un piano sempre più inclinato.
   Ogni svolta particolare della storia ha bisogno di miti ai quali appoggiarsi e si scruta subito nel passato alla ricerca degli incunaboli di uno specifico grande avvenimento. Il fascismo fa la stessa cosa e con le debite proporzioni, quello locale non deve andare lontano nel tempo per trovarne uno, lo trova ancora caldo, per così dire, nel senso che il fascismo tarantino si impadronisce subito della figura di Mastronuzzi, facendone un eroe delle idealità fasciste. Il giovane era stato molto probabilmente ucciso dai colpi partiti accidentalmente dalla pistola di un finanziere, ma la vulgata indicherà sempre e soltanto il gesto insano dell’antitaliano bolscevizzato, rinnegatore dei veri ideali della patria, assoldato ad un potere estraneo alla storia italiana. Una volta stabilito questo, tutto concorreva a creare il mito. E l’Autore ci mostra man mano come questo mito cresce col crescere dell’influenza fascista, per diventare dopo il 1925/26 e soprattutto negli anni trenta un mito “totalitario”, ricordato l’8 maggio di ogni anno con cerimonie in piazza Archita, che presto verrà dedicata al giovane ucciso. Di fronte alle divisioni del fascismo locale, il mito celebrativo del giovane Mastronuzzi agirà come elemento unificante seppure temporaneo.
   Da un punto di vista più generale il mito di Mastronuzzi sarà la cartina al tornasole per registrare con attenzione da parte di Matichecchia il clima di esaltazione generale e locale del ventennio. Ma come ho già detto, la vicenda del Mastronuzzi e del suo mito, si intrecciano con la storia della città: gli anni tra il ’19 e il ’20 (“biennio rosso”) avevano provocato a Taranto una forbice sempre più ampia tra il ceto borghese in tutti i suoi gradi e la classe operaia; e il libro coglie i contorni principali della radicalizzazione del momento politico nazionale che si riverberava anche su Taranto.
   Il libro parla di un giovane e nello stesso tempo offre i contorni di quella gioventù anche tarantina, attraversata da forti ideali, per cui non si poteva essere man mano che sempre più o rossi o sempre più neri, o amici o nemici, non semplici avversari politici. La natura di questi giovani aspettava soltanto un’occasione per erompere all’aperto e agire.
  Gli appuntamenti elettorali politici e amministrativi dal 1919 in poi, tenderanno a svolgersi «in un clima di laceranti contrapposizioni», come scrive Matichecchia, tra fautori dell’ordine e i “sovversivi”, e usa termini come “precipizio”, “deriva”, analizzando a fondo le periodiche elezioni politiche ed amministrative.
   La città scivola man mano verso l’epilogo degli anni ’30; ma lo fa con i suoi spettacoli, le sue gare motociclistiche, le sue rappresentazioni teatrali. Arriva la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti, gli stanchi incitamenti alla vittoria, fino al 25 luglio del tormentato anno 1943. «Con il 26 luglio, i gerarchi del fascismo tarantino si eclissano e restano solo gli sprovveduti, smarriti e disorientati, non in grado di elaborare il lutto per la fine del fascismo».
   Ma torno un momento alla figura del Mastronuzzi perché proprio la lettura che fa Matichecchia delle periodiche celebrazioni del mito mi ha spinto ad una riflessione che ho riportato anche nella prefazione e che sintetizzo: mi sembra cioè che coll’andare del tempo la figura del giovane in sé diventa altro dalle celebrazioni del mito che lo riguarda, quasi che non fossero più la stessa persona, nonostante partecipino fino all’ultima celebrazione i familiari più stretti. C’è in altre parole un’astrazione della sua figura, uno svuotamento della sua anima. Al di là della fisiologica stanchezza che man mano prende l’appuntamento dell’8 maggio («niente di più del dovuto» scrive Matichecchia per le celebrazioni del maggio 1935), il Mastronuzzi del 1921, morto nei pressi del ponte di pietra si allontana, nel suo essenziale profilo biografico, da quello che man mano viene ricordato in forma sempre più astratta attraverso la liturgia del mito dell’eroe fascista e attraverso il filtro di un monumento, l’intitolazione di una piazza o di una scuola.
  Un altro aspetto che a me premeva sottolineare proprio nella prefazione è che tutta la vicenda raccontata con passione e competenza da Matichecchia ancora oggi potrebbe essere motivo di riflessione, di dibattito, di confronto sempre e soprattutto nelle scuole, proprio perché il protagonista è un giovane studente dell’Archita ed anche perché la storia ci appartiene tutta così come si è svolta, non possiamo prenderne i pezzi che più ci fanno piacere e lasciarne altri perché raccontano avvenimenti non condivisi. Insomma non sarebbe male porsi il quesito, da un punto di vista pedagogico e didattico, di come presentare questo libro ai liceali, come declinarlo senza processi alle persone e tantomeno al giovane Mastronuzzi.
  Il libro di Matichecchia infatti non fa processi a nessuno, non cade nella trappola delle opposte ideologie; scandaglia con l’ausilio di una stampa, il cui utilizzo ancora una volta risulta prezioso e indispensabile, la storia di una città, di un regime, di un giovane a suo modo protagonista di quel ventennio, di uomini dei vari rami del governo locale, in gran parte inadatti a sostenere e gestire la mole di quegli avvenimenti che si succedono tra il 1919 e il 1943.
   Certo emerge dallo studio di Matichecchia una Taranto che comunque si muove, si agita, vive le sue difficili vicende naval-industriali con la crisi degli anni Venti ed una certa ripresa negli anni Trenta, con i suoi operai ed antifascisti, con la sua partecipata vita religiosa; una città che si esalta per la monumentale costruzione del palazzo del governo così come per la visita di Mussolini, ma che facilmente si impaurisce e si deprime dopo i primi bombardamenti alleati sulla città.
   Matichecchia ci accompagna dunque in questo “lungo” ventennio, offrendoci nuove chiavi di lettura di quegli anni complessi, proprio avendo come prisma di interpretazione la tragica vicenda personale di Mastronuzzi, sempre attento alla lettura del materiale storiografico più attendibile e meno fazioso, sforzandosi di leggere nell’animo di una città che viveva anche la sua vita quotidiana in quegli anni e aveva i suoi divertimenti e i suoi luoghi di ritrovo, i suoi pontificali in cattedrale, le sue adunate in piazza della vittoria, ma anche i suoi commerci, il suo mare, la “sua” marina militare.
  Questo libro merita tutta la nostra attenzione, anche per il suo stile, per come tutte le complesse e meno complesse vicende sono raccontate, e basterebbe scorrere le varie recensioni man mano pubblicate in queste settimane per rendersene conto, ma ancora di più ci si può rendere conto attraverso una lettura diretta. Grazie prof. Matichecchia, grazie Guglielmo per quest’altro importante tassello che ci offri per una sempre migliore comprensione della storia della nostra città.

PIERO MASSAFRA - Editore
Allora partirei mettendoci un “tertius (sic) non datur” perché, dopo gli interventi dei carissimi amici e studiosi che mi hanno preceduto, è chiaro che alcune cose dovrò sintetizzarle.
   Io mi soffermerò un po' da editore che ha a che fare con libri e che li legge, a volte innamorandosene; in questo caso l'amore è stato a prima vista e se quelli a prima vista molto spesso non durano, questo credo durerà parecchio perché c'è da dire che è raro e difficile parlare di Fascismo, come nel nostro caso.
   È inutile nasconderci dietro un dito, è difficile perché anche se si affronta con il distacco critico che lo studioso, lo storico deve avere, trattarne è sempre un po’ imbarazzante; l’opinione pubblica non è ancora pronta ad accettare “cose” del genere.
 Questo libro, letto fino in fondo e attentamente, rappresenta dimostra però come anche la più scabrosa delle situazioni storico-politiche-ideologiche può essere affrontata con distacco, con serietà, con oggettività e tutto questo, badate, risulta chiaro se si va a dare un'occhiatina alla bibliografia, alla sua robustezza, alla sua autorevolezza: ci si trova difronte ad un’opera di particolare complessità e di particolare valore.
   E come uscire dall’imbarazzo di un rapporto con una materia difficile?
  Al prof. Guglielmo Matichecchia è possibile perché credo sia uno studioso che fa parte di quella che definirei “consorteria defeliciana”.
   Renzo De Felice, molti anni fa, incominciò a violare “il non se ne parla” o nel caso, se ne deve parlar male, e Matichecchia da ricercatore, con distanziamento ideologico, può trattarne e il desiderio di oggettività lo ha già mostrato in altre sue cose, non solo nella sua attività di conferenziere, di uomo di cultura, di lettore di Dante, ecc… ma soprattutto in quello splendido volume che riguarda praticamente l’iniziale ‘900 tarantino, dedicato a Federico Di Palma che, mi sono permesso di dire una volta, insieme ad un opera importante di Vittorio De Marco, mi sembra uno due pilastri della più seria storiografia tarantina.
   Dunque il fascismo, qui, proprio in maniera de feliciana, è riesplorato al punto che sill’argomento si lancia anche una luce nuova, almeno per i contemporanei. Perché quelli che sono stati in quel mondo, che hanno avuto tradizione familiare molto particolare con quell’età, forse possono avere più sensibilità per capire davvero cosa avvenne, ma, per il “contemporaneo” questo libro di Guglielmo è certamente un riemergere di Taranto, iln restauro di una parte della storia della città a lungo taciuta.
   Che cosa, qual è l'elemento che mi ha colpito? Certo Taranto, il fascismo, i gerarchi che vengono, il martire che diventa simbolo di una rivoluzione possibile o non possibile, ma soprattutto il giovane Mastronuzzi. È un ragazzo di 17 anni, e da cosa nasce quella sua sensibilità? dobbiamo entrare nella cultura italiana ‘800, e nei licei italiani del periodo.
  La scuola, scrive Guglielmo, esaltava un Risorgimento che, seppur incompiuto (anche questo va tenuto presente), restituiva all'Italia l'antico onore, una comune appartenenza, una riconoscibile identità, soprattutto una patriottica fraternità di sentimenti e di speranze da non disperdere e da consolidare.
   Ebbene alcuni giovani certo sbagliavano, ma noi sappiamo che poi la cosa sarebbe finita come finì, loro no; e c'erano altri giovani, altrettanto infervorati, che sembravano però, rispetto a quelli costruiti direi ufficialmente nella tradizione culturale occidentale, come fossero non residenti nella stessa patria-nazione, altrettanto inclini a realizzare qualcosa; non c'è gioventù distaccata in quel momento della storia cittadina, della storia d’Italia: tutti o quasi i postadolescenti erano giovanilmente “furiosi”.
   Mastronuzzi parte per Fiume verso D’Annunzio che è il mito, il fascino, l'Europa, la grandezza, la cultura: è chiaro che si è irretiti inevitabilmente da un mito vivente e non da un’ideologia dispersa in tanti personaggi più o meno interessanti che operano in un ambiente che non può trasmettere il fervore immediato del vate. E l’incipit del libro di Guglielmo è proprio in questo rapporto con la figura straordinaria del nostro D'Annunzio.
  Ebbene, certamente il giovane non voleva essere martire nel modo in cui finì con l'esserlo, strumentalizzato, ma il martirio era ancora nella logica di uno spirito risorgimentale; non possiamo dimenticare che c'è una tradizione mazziniana che pensa che il lsangue può essere dato alla patria, perché la patria risorga; quindi era convinto, come molti giovani, che la violenza poteva avere due valori: una violenza buona, terapeutica, addirittura feconda, e una cattiva che era quella degli altri italiani che naturalmente non si legavano alla tradizione culturale da cui Mastronuzzi era stato formato.
   Insomma quel ragazzo fa parte di una generazione conquistata da un fanatismo intollerante che peròva contestualizzato storicamente; quella realtà va liberata dal semplicismo di una rappresentazione in cui il presente si sovrappone al passato con deformazioni ideologiche e acrobazie intellettuali antistoriche.
   Nel libro, nel saggio, io dico nel “romanzo” c’è Taranto del primo ‘900 che aspetta, secondo me, di essere, come dire, anche vissuta in una dimensione romanzesca e il libro di Guglielmo ha il fascino del racconto, retto da una lingua curata; la scelta narrativa, pur rispettando gli strumenti della saggistica, si giova di ritmi espositivi adeguati ai diversi momenti di partecipazione, ma non per complicità o condivisione. E lo stile si sottomette all’incalzare degli eventi, si chiude in parole, in ritmi senza sbavature, parole che devono aderire, anche nei suoni, nella struttura sintattica, nella scelta lessicale, al momento di cronaca o di storia, alle atmosfere, al comune sentire e alla umana partecipazione a quel momento.
   Vorrei citare alcuni luoghi del volume in cui l’incalzante narrazione è davvero la colonna sonora dei fatti; ad esempio si avverte quasi una naturale, funebre versificazione nel luttuoso incedere dello sguardo, del sentimento, verso quel fatto, quel caduto, non ancora martire ufficiale, ma solo giovane prematuramente e ingiustamente sottratto alla vita.
   Ogni eventuale dubbio apologetico è fugato dalla dovizia di naturali, umani segni di commozione che propone il linguaggio di Guglielmo Matichecchia, e che ritrovi in tanti termini che sono quelli di tutti i pietosi riti della morte, in più solo il tricolore ad indicare che c'è una presenza, diciamo, di ideologia. Ma avverti anche i fiori, freschi, gli amici, fedeli; viene quasi spontaneo di dare questo omaggio ad un giovane che comunque è vittima di tutto, probabilmente anche di se stesso e senti lo smarrimento sincero di tanta parte della città borghese, e persino delle istituzioni; addirittura nel manifesto del sindaco Pasquale Delli Ponti si fa appello “ai migliori sentimenti, al patriottismo della cittadinanza per esortarla alla reciproca tolleranza delle proprie idee, in nome della stessa libertà che tutti invochiamo”.
Infine non si può non ringraziare l'autore, lo dico con assoluta sincerità, per lo straordinario, completo indice dei nomi: una sorta di vero soccorso culturale, per favorire la possibilità di andare a ritrovare famiglie, luoghi, fatti, eccetera; al lettore certo sarà di enorme aiuto.
   Dunque, Matichecchia si pone di fronte a fatti sbiaditi, inattuali, ormai rimossi e lo fa con piglio da storico, senza finalità politiche o ideologiche, perché sa bene come la storia non ammetta alterazione o rimozioni, ma indagini.
   Lo storico in fondo è un restauratore o comunque un addetto alla manutenzione del passato, che va riguardato, sorvegliato perché non crolli o sbiadisca, non per farne un modello o il suo contrario, ma, per documentare una tessera della vita dell'uomo, di una città, di un popolo.
   Vorrei congedarmi, richiamando le belle recensioni puntuali, colte, proposte da José Minervini e da Lucio Pierri che insieme considerano l'opera di Matichecchia, certo indagatrice di un fatto clamoroso, ma, soprattutto un esempio straordinario e riuscito di “storia corale”, nella quale si accomodano tante famiglie tarantine di ieri, importanti, passate poi nell’oggi; i numerosi ospiti illustri che ogni anno erano a Taranto per l’anniversario di quella morte; i luoghi come erano allora; la stampa, croce e delizia della città, e la sottolineatura di quanto sempre si addica al comportamento dei giovani, alla loro irruenza che andava riempita e gli ideali di allora erano quelli.
   Mi pare, e lo dico con sincerità, cn un po' di esperienza di cose che si pubblicano dalle nostre parti, che il volume di Guglielmo è tra le poche opere sull'argomento, pur apparentemente circoscritta nel pomerio cittadino, che si proponga come di taratura e interesse nazionale, perché egli ha avvertito, nella sua indagine, che questo doveva essere un argomento da riprendere e da riportare alla ribalta nazionale, perché Taranto in quel momento aveva davvero un’importante valenza nazionale.
   E ringrazio il mio amico Paolo Solito per questa occasione culturale proposta e offerta alla città.



INCONTRO CON L'AIMC DI TARANTO
17 aprile 2021


INCONTRO CON L'ANPI DI MASSAFRA
25 aprile 2021
Con l’introduzione di Graziana Leo, presidente Anpi Massafra, ha avuto luogo, nella nostra città, la celebrazione del 25 Aprile, data storica e simbolica di Libera-zione da ogni fascismo. L'Amministrazione comunale ha salutato l'evento con le parole del presi-dente del Consiglio comunale, Maurizio Baccaro. L'incontro ha avuto il clou nella presentazione del libro di Guglielmo Matichecchia, “Nella storia del regime”, un’analisi del ventennio fascista osservato con l'occhio distaccato dello storico. La relazione introduttiva è stata del dott. Gianni Jacovelli, storico della medicina e già sindaco di Massafra. E’ quindi intervenuto il prof. Piero Massafra, editore e studioso di cultura
classica. L’autore, Guglielmo Matichecchia ha concluso l’incontro. Parlare di fascismo per celebrarne la caduta potrà apparire desueto. In verità per difendersi dal fascismo bisogna studiarlo con occhio distaccato per riconoscerne i segni prodromici. Ed oggi sono numerosi i segnali d'allerta: lo smarrimento dell’Unione europea, la perduta credibilità dello Stato e delle Regioni, l’accresciuto impoverimento del ceto me-dio. Sono tutti motivi per vigilare affinché non accada quanto avvenuto in Polonia, Ungheria, Austria, Brasile. Le difficoltà delle nazioni diventano terreno fertile per le dittature. In collaborazione con l’associazione "Giardini Musi-cali" di Daria Palmisano, l'Anpi di Massafra ha realizzato un video in cui "Bella Ciao", canto popolare simbolo della resistenza italiana, ha fatto da colonna sonora a foto e documenti di antifascisti massafresi provenienti dell'archivio Santoro. Per il secondo anno, anche i giovani di Fratres Puglia hanno reso omaggio alla festa della Liberazione tramite la rubrica "Fratrestories", affidando ad un giovanissimo volontari la testimonianza e le ultime parole di Franco Balbis, partigiano ucciso dai nazisti nel 1944.

(Celebrata la Liberazione dal fascismo, in "Sensificio", Anno VI, 1 maggio 2021, n. 141, p. 3)



Il mondo della scuola piange Mino Oggianu

   La città, il mondo della scuola e della cultura perdono uno dei suoi figli migliori. Giacomo Oggianu, Mino per i colleghi e i tanti amici, lascia inconsolati quanti l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene.
  Nasce l’8 novembre 1931 e conosce i sacrifici e le sofferenze degli anni difficili di un’Italia che si illude d’essere una potenza imperiale, di poter vincere una guerra e che, invece, si ritrova con le macerie di un Paese da ricostruire.
   Giacomo Oggianu sa che la scuola può favorire la rinascita, far sperare in un futuro migliore ed essere la leva per risollevare le sorti della nostra società. Con l’anno scolastico 1953-54, inizia l’insegnamento nella scuola elementare; è il maestro che sa conquistare la mente e il cuore dei bambini. Con tenace volontà e con non pochi sacrifici, segue gli studi universitari e consegue nel 1963 la laurea in Pedagogia, richiesta per partecipare al concorso per direttore didattico e conseguentemente iniziare nel 1966 la nuova esperienza nella direzione delle scuole elementari che proseguirà sino all’agosto del 1982, quando - a seguito di un concorso nazionale - diventa ispettore scolastico.
  Attraversa le stagioni più importanti della scuola elementare, dalle classi affollate e dalle aule spesso di fortuna, dalle classi differenziali e speciali, dalla scuola selettiva alla scuola dell’integrazione, dell’inclusione con un primo respiro di partecipazione democratica con i famosi decreti delegati.
  Gli ultimi anni di direttore didattico sono trascorsi nella scuola elementare del XV circolo “Don Lorenzo Milani” di Taranto e il prete di Barbiana è ormai il punto di riferimento per chi, come Oggianu, crede in una scuola democratica, pienamente formativa, inclusiva, per tutti e per ciascuno. È sempre in prima fila per il rinnovamento della scuola, impegnato nei processi di innovazione che abbisognano del rigore della ricerca e della sperimentazione educativa. Sono gli anni in cui la scuola del capoluogo può contare su una leva di ottimi direttori didattici con i quali ritrovarsi con forti valori educativi. Tra questi si ricordano Pina Gubitosa, Vincenzo De Michele, Franca Bonavoglia, Angelo Locritani, Pietro Talamo, Mario Scialpi, Giuseppe Colucci, Paola Sassi Airò, Nico Indellicati, Giulio Liuzzi e altri che hanno dignitosamente onorato la scuola italiana. La sua attività di ispettore scolastico, iniziata nel 1982 nella provincia di Matera, continua e si conclude a Taranto nel 1996. Sono gli anni trascorsi con i provveditori Giovanni Gigli e con Alfengo Carducci, con i colleghi Leonardo Crichigno, Ettore Frunzio e Antonio Panetta in una realtà che inizia a mostrare i suoi limiti con l’avanzare di una scuola con una cultura più aziendalista. Si impegna anche nella formazione delle nuove leve dei docenti per l’integrazione agli alunni diversamente abili nell’OSMAIRM di Laterza e nei corsi organizzati dal locale Provveditorato agli studi, nella docenza universitaria nella facoltà di scienze della formazione della LUMSA di Taranto.
   In ogni momento della sua attività al servizio della scuola, dimostra sempre l’alto senso dello Stato, il rispetto della istituzione alla quale ha vocato la sua vita con zelo, con spiccato senso del dovere, con lungimirante intelligenza, con passione educativa. Chi lo ha conosciuto bene ricorda le sue qualità di “osservatore attento, rispettoso e sensibile, pronto a cogliere i bisogni di chi gli sta vicino, cercando sempre di aiutare, senza chiedere nulla, la sua onestà nel lavoro e nella vita, la sua tenerezza di padre, di nonno”. Sì! Giacomo Oggianu vive la bellezza dei valori della famiglia, dove è marito esemplare, padre premuroso, orgoglioso delle sue meravigliose figlie Marisa, Fiorella, Silvia e Sandra, che sentiranno sempre vivi i suoi insegnamenti e il suo amore.
   Ciao, Mino, ti sia lieve la terra!

GUGLIELMO MATICHECCHIA, Il mondo della scuola piange Mino Oggianu, in “Buonasera Taranto”, Anno XXIX, 30 aprile 2021, n. 82, p. 18.