lunedì 16 novembre 2020

LA NOTTE DI TARANTO: UNA QUESTIONE ANCORA APERTA


Ottant’anni fa, l’11 novembre 1940, nel giorno del settantunesimo genetliaco del re, mai alcuno avrebbe pensato che gli inglesi potessero partecipare ai festeggiamenti in onore di Vittorio Emanuele III con bengala al magnesio per illuminare la notte tarantina.

Una pagina nera
È una notte che rimane nella storia della città di Taranto, dell’Italia, della Marina militare e della Seconda guerra mondiale, come una delle pagine più dolorose, umilianti, una vergognosa «pagina nera», secondo una definizione riportata da Ciano nel suo diario, dove annota altresì che Mussolini «ha incassato bene il colpo e quasi sembra, in questi primi momenti, non averne valutata tutta la gravità».
È una notte terribile di orrori e di errori, di impreparazione e di disorganizzazione, di imprecazioni e di invocazioni, di paura e di disperazione, di pianti e di alte grida, di fuoco e di squassanti boati, di morti e di lutti, di danni ingenti e di pesante discredito per l’inadeguatezza e l’inaffidabilità delle nostre forze navali e dell’Italia che subiscono un altro affronto insieme alle pesanti sconfitte dell’esercito in Africa. È una notte che lascia ancora qualche importante domanda senza alcuna risposta, senza verità, inabissate e sepolte non casualmente in fondali inaccessibili.

Un bombardamento ben preparato
Il bombardamento della flotta italiana nel mare di Taranto, le vittime e i gravi danni alle navi non sono il risultato di un’occasionale azione militare degli aerosiluranti Swordfish della Royal Navy, in quanto è evidente l’accurata preparazione da parte di chi dispone di uomini, di mezzi appropriati, di nuove tecnologie, ma anche di conoscenze della realtà militare di Taranto, dei movimenti delle navi in entrata e in uscita, dei sistemi e delle strutture di difesa del naviglio all’ancora, in particolare, della protezione contraerea e di quella antisiluramento. L’ammiraglio Luigi Sansonetti, comandante della III Divisione incrociatori pesanti fino al luglio del 1941, fa pensare che gli inglesi possano avere delle spie prezzolate e che la città bimare possa ospitare “un nido di spie” a servizio della maestà d’oltre Manica, affermando «che le navi che partivano all'improvviso [dal porto di Taranto] non venivano, al contrario di quelle la cui partenza era prevista da tempo, attaccate dal nemico».
Non vanno ignorati l’inefficienza nella catena del comando piramidale della Marina militare, né la diversità di vedute tra i più alti gradi (l'amm. Domenico Cavagnari, Capo di Stato Maggiore della Marina, è al vertice e anacronisticamente ritiene che la Marina italiana non abbia bisogno di portaerei e di un’aviazione navale) e, non ultimo, il dilettantismo dei servizi segreti delle tre forze armate organizzati a compartimenti stagno. 

L’Operazione Judgment
Per gli aerosiluranti della Mediterranean Fleet (comandata dal contramm. Andrew Cunningham), nelle loro comunicazioni in codice, “tutti i fagiani sono nel nido” e, infatti, tra il Mar Grande e il Mar Piccolo sono all’ormeggio 6 corazzate (Cavour, Doria, Duilio, Vittorio Veneto, Littorio, Cesare), 7 incrociatori pesanti (Gorizia, Zara, Fiume, Trieste, Bolzano, Pola, Trento), 2 incrociatori (Duca degli Abruzzi, Garibaldi), 29 cacciatorpediniere, la nave appoggio Miraglia e, in più, 16 sommergibili, 5 torpediniere, 4 dragamine, un posamine, vari Mas e un vasto assortimento di mezzi ausiliari di diversa tipologia per un totale di circa 200 unità navali. Con l’inizio dell’Operazione Judgment, gli equipaggi dei 21 Swordfish decollano in due ondate dalla portaerei Illustrious verso il golfo di Taranto, rientrando con la perdita di appena due velivoli.

La verità di Churchill
Churchill può vantare nella Camera dei Comuni il successo militare che «torna a onore dell’aviazione della flotta e … influenza in modo decisivo l’equilibrio della potenza navale del Mediterraneo»; dirà altresì che «entro il suo inglorioso rifugio la flotta italiana è stata sconfitta; sconfitta che sarebbe stata considerata in modo completamente diverso dall’opinione pubblica se fosse stata subita in combattimento in mare aperto. La superiorità del nemico non gli è servita che per mettere in atto una difesa passiva. L’azione su Taranto rappresenta il punto culminante della disfatta italiana» e non meno del crollo del regime fascista e della nascita della repubblica. 

La notte del tradimento
Per i tarantini il bombardamento della flotta è il frutto del tradimento e, infatti, Giacinto Peluso racconta che «la gente della strada, dotata di senso comune, attribuiva il doloroso episodio ad una sola causa: il tradimento, non c'era altra risposta.
Per tradimento, tutta la flotta italiana era stata concentrata nei nostri due mari e tenuta immobile per mesi; per tradimento non si erano rimpiazzati i palloni asportati dal vento; per tradimento non si erano messe le reti intorno alle navi.
Corre anche insistente una voce secondo la quale la sera dell'11 novembre, in occasione del genetliaco di S.M. Vittorio Emanuele, gli ufficiali erano tutti al ricevimento organizzato al Circolo di Marina e non al loro posto di comando».

Gli eroi senza volto di Taranto
Mussolini si precipita a Taranto per rendersi personalmente conto dei danni alla flotta. Per le possibili riparazioni si è costretti, nonostante il rigore delle leggi razziali, a richiamare in servizio il pluridecorato generale del genio navale Umberto Pugliese (1880-1961) per dirigere il recupero e la riparazione delle navi colpite nel porto di Taranto. Dignitosamente, il gen. Pugliese chiede solo il rimborso delle spese di viaggio e l’autorizzazione a indossare ancora l’uniforme di cui era stato ingiustamente privato. Le maestranze tarantine dell’Arsenale militare, con alto e generoso senso del dovere e con nobili sentimenti patriottici, arricchiscono la schiera degli eroi senza volto e, con prolungati orari di servizio, consentono alle navi di riprendere il mare, in tempi brevissimi e con sorpresa e ammirazione da parte della stessa marina nemica che continua a bombardare la base militare senza risparmiare le abitazioni civili del capoluogo jonico.
Solo dopo alcuni mesi, il 15 febbraio 1941, dieci giorni dopo una rapida visita di Vittorio Emanuele III alla base navale e una breve sosta nell’arsenale militare, si deciderà di “chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi” e, con un’ordinanza prefettizia, l’ingresso e l’uscita dalla città sarà possibile solo con un lasciapassare rilasciato dalla questura del Comune di residenza. 

Una pagina ancora aperta
Sulla notte di Taranto, a conferma di un’attenzione sempre attuale, ci sono fiumi d’inchiostro versati su giornali e riviste specializzate, in saggi e in racconti. Non pochi i convegni e gli incontri di studio, tra cui si ricordano quello di Giovinazzo (11 ottobre 2014) con la partecipazione dell’avv. tarantino Raffaele De Cataldis, recentemente scomparso, e quello di Taranto (27 novembre 2018) con gli interventi di Paola Petrone Albanese, Stefano Vinci, Claudio Rizza, Giosuè Allegrini, Vincenza Musardi Talò e la testimonianza di Paolo De Stefano. Tra i tanti che hanno scritto, vi sono alcuni protagonisti dell’epoca, storici, ricercatori e narratori e qui vanno ricordati Cesare Amé, Carlo De Risio, B.B. Schofield, Arrigo Petacco, Renzo De Felice, Indro Montanelli, Giorgio Candeloro, Antonino Trizzino, Francesco Mattesini. A livello locale, tra i numerosi autori, si rammentano Nino Bixio Lo Martire, Giovanni Acquaviva, Giacinto Peluso, Roberto Nistri, Stefano Vinci e, non ultimi, con un taglio più narrativo, Angelo Cardellicchio e Roberto Perrone.
Insomma, la notte di Taranto - definita, con i necessari distinguo, la Pearl Harbor italiana - dopo ottant’anni, resta ancora una pagina viva, una pagina aperta su cui la riflessione e la ricerca continuano.

Guglielmo Matichecchia, La notte di Taranto: una questione aperta, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 11 novembre 2020, n. 225, p. 17.

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