martedì 17 novembre 2020

Un tarantino di quelli che han sempre a cuore la città nativa


Ottant’anni fa, domenica 17 novembre, la scomparsa “improvvisa e dolorosa” a Roma di Vincenzo Fago (Taranto, 28 aprile 1875). Gli è accanto la moglie Lilia, la donna del «soave nido… [che] …tanta dolcezza diede alla mia vita» e, trenta giorni prima che questa vita «a inabissar s’appresta» è ella «a raddolcir l’estremo mio cammino». Vincenzo Fago muore con la mano nella mano di Lilia con quella dolcezza di chi, nel suo ultimo sguardo, trova, come orizzonte, il volto della persona amata. Al cordoglio della famiglia partecipano gli amici più cari del mondo della cultura, della politica con messaggi provenienti da più parti anche dall’estero e, tra questi, non manca quello del sovrano che ha avuto modo di apprezzare personalmente l’opera preziosa di Fago per migliorare i rapporti tra l’Italia, l’Egitto e gli altri Paesi mussulmani che si affacciano nel Mediterraneo. 

Il volontario esilio
Poliglotta, studioso, storico, giornalista, diplomatico, è per la “Voce del Popolo” un «tarantino di quelli che han sempre a cuore l’immagine, il ricordo, l’amore della città nativa. Vincenzo Fago fa parte di quella “schiera di tarantini – nota il poeta e commediografo dialettale Cataldo Acquaviva (1885-1969) nel 1941 - ai quali questo nostro àmbito paesano troppo angusto e ristretto si manifestò per potervi svolgere convenientemente le forze vitali del proprio ingegno ed affermarsi nei campi più disparati del sapere e dell’arte”. Così Fago, terminati gli studi liceali, è esule volontario a Roma per laurearsi prima in lettere e poi in giurisprudenza e dove dal 1903 entra nell’organico delle biblioteche governative e, in particolare, nella Biblioteca nazionale centrale “Vittorio Emanuele II”, portando sempre «nel cuore - così lo ricorda l’amico Cesare Giulio Viola (1886-1958) - la luce dei tramonti jonici e il sentimento della natura, tipico dei lirici greci». 

La tarentinità
Fago è l’esempio di quella tarentinità di «ille terrarum … praeter omnes / angulus ridet» che, quando c’è, non si logora con la lontananza e con il tempo; si porta sempre con e dentro di sé, essendo - come afferma l’Autore di “Pater” - «una visione jonica dell’arte e della vita: un riallacciamento agli spiriti della Magna Grecia». La tarentinità è bellezza che ha radici profonde in una cultura che è ponte tra popoli e civiltà, che è nel suo passato di «nobilis et opulenta urbs» (Tito Livio), nella sua origine «circondata da un velo mitico e divino» (Ferdinand Gregorovius) e, non meno, in quel futuro di cui il presente dovrebbe avvertire molto più la grande responsabilità. 

Nel ricordo degli amici 
L’amico Renato Angarano, redattore della “Voce del Popolo”, ricorda il giovane Fago «bellissimo nell’aspetto, alto, eretto, elegante, ammirato e ambito da non poche elette donne del tempo»; è un abituale ospite dell’elegante salotto dell’archeologa Ersilia Caetani Lovatelli, la prima donna a far parte dell’Accademia dei Lincei, dove è “uno dei frequentatori più simpaticamente graditi” che sa «intendere dibattere, in acute trattazioni, i problemi fondamentali con sottili riferimenti alle glorie e alla potenza del passato e alle esigenze dell’avvenire» e dove è possibile incontrare i più noti esponenti della cultura letteraria italiana, tra i quali il Carducci e D’Annunzio. È un assiduo frequentatore della “terza saletta” del celebre Caffè Aragno di via del Corso, battezzata da Orio Vergani “il sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo”, dove Guelfo Civinini gli dedica una delle tante strofe divertenti riservate agli amici: «C’era pure Vincenzo Fago / col suo splendido gilè / che specchiava la sua imago / negli specchi del caffè». Vito Forleo, legato da giovanile amicizia, ricorda la felicità di Fago quando gli si riconosceva «di essere il banditore più ascoltato delle nostredelizie”» e la bella lettera con cui aveva presentato Taranto a Marinetti «sotto i più amabili aspetti, comprese lechiancarelle”». 

Da Taranto nel mondo
Fago non possiede solo una vasta cultura e notevoli qualità professionali. Infatti, Abbas Hilmy, ultimo Khedivè d’Egitto, gli riconosce “le charme et la droiture”, la gentilezza, il garbo, la probità e la rettitudine. È prestigioso l’incarico nel 1908 per allestire la Biblioteca universitaria a Il Cairo, dove lavora fino al 1912 o 1913. In tali anni, assume l’incarico di capo di gabinetto del principe Fuad, poi re d'Egitto; fonda l'Agenzia telegrafica italiana al Cairo. Negli anni successivi alterna brevi periodi di rientro alla Biblioteca nazionale di Roma con altri incarichi per il Ministero degli Esteri. Partecipa alla I guerra mondiale, come tenente di fanteria in Carnia e in missioni speciali in Grecia e a Costantinopoli per l'Ufficio Informazioni del Comando supremo, congedandosi nell'ottobre 1919. È in Anatolia presso Kemal Ataturk durante la guerra greco-turca (1919-1922) e, quindi, in Cirenaica e negli Stati Uniti, in varie missioni, per il Commissario dell'emigrazione. Nel 1926-1928 è incaricato della direzione dell'Ufficio scambi internazionali al Ministero della P.I. Prende parte dal 1926, con Luigi De Gregori, alle attività internazionali che portano alla nascita dell'IFLA (Federazione internazionale delle associazioni e istituzioni bibliotecarie), partecipando ai congressi di Atlantic City (1926) e Edimburgo (1927), diventando vicepresidente del Comitato internazionale dell’IFLA e segretario generale del I Congresso mondiale IFLA, tenuto a Roma e Venezia nel 1929. Fa parte nel 1930 del Comitato promotore dell'AIB (Associazione italiana biblioteche). È in servizio fino alla morte nella Biblioteca nazionale centrale di Roma, restando per lo più comandato altrove per le esigenze del Ministero degli Esteri. 

L’opera letteraria
Fago è apprezzato come poeta, critico d'arte e di letteratura, autore di varie opere di storia pugliese e sul mondo arabo. È l’autore nel 1906 del famoso saggio Taranto “La Voluttuosa„ (che con “Pater” di Viola fa parte di quelle letture della “tarentinità” che non dovrebbero mancare nell’abitazione di ogni tarentino). Collabora con la “Nuova Antologia”, compone la silloge XV poesie (1897), il saggio critico Leone Tolstoj. L’opera e l’uomo (1901), Il romanzo in Italia (1901), Nerone di Arrigo Boito (1901), Monumenti cristiani di Taranto (1903), la raccolta di poesie Discordanze (1905). Pubblica Arte araba. Arte araba nella Siria e in Egitto (1909), L’Università egiziana di Cairo (1909), Echi islamici: l’ultimo Khedive? (1914), Enver pascià, la Cirenaica e l’Egitto (1914), nonché saggi sul porto mercantile e sul museo di Taranto. 

Per sempre nella sua Taranto
Dopo la sua scomparsa, l’Amministrazione Comunale, con delibera del 28 novembre 1942 del commissario prefettizio Pietro Pampillonia, decide di onorarne la memoria, accogliendo la sua salma vicino a quelle di Antonio Russo e di Mario Costa, in una sepoltura perpetua che possa significare la gratitudine della città verso il figlio illustre da additare alle future generazioni, come esempio della migliore tarentinità.

Guglielmo Matichecchia, Un tarantino di quelli che han sempre a cuore la città nativa, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 17 novembre 2020, n. 229, p. 17.

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