mercoledì 18 novembre 2020

Liborio Tebano, voce del vernacolo tarantino

Nello stesso 17 novembre, Taranto piange la scomparsa di Liborio Tebano (Matera 14 ottobre 1866). È una delle voci più belle, pulite, genuine del vernacolo tarentino. 

Quale tarentinità 
Tebano è l’esempio d’una tarentinità che non è un dato genetico, quanto soprattutto culturale. Si può nascere a Taranto senza alcuna tarentinità, vivendo da residenti e non da cittadini. Si può venire a Taranto da lontano o, come Tebano, da Matera a 14 anni e innamorarsi di questa città, dei colori, dei suoni, degli odori, delle prelibate primizie e delle celebrate delizie e, non meno, delle sue stridenti contraddizioni, indossarne l’habitus, condividere le tradizioni, interiorizzando l’eco di un tempo sempre vivo, di una cultura giammai sfiorita, cui attingere - avendo presente la volontà divina, cume vo' Ddije! - per un futuro migliore. Insomma, Tebano è un tarentino a tutto tondo e Giacinto Peluso riconosce, a tal proposito, il «tarantino di adozione e di cuore», perché qui è la sua tarentinità, un’unione di valori e di sentimenti che si riconosce in quella Taranto, gran regina dello Jonio, “portento, bellezza, gaiezza tra due mari tanto rari!”. 

Il poeta operaio 
Tebano è anche l’espressione di una poesia dialettale che nasce da un uomo d’una straordinaria operosità, di sani principi morali, con i valori cristiani della famiglia, formatosi alla scuola del duro e onesto lavoro, con l’ancoraggio ai valori della tradizione, al sentimento della patria, a un’umanità che conosce i sacrifici della vita, che ha una cultura reale, lontana da ogni pretenziosa e vuota erudizione. È fiero nel dichiarare nei suoi versi: No' so' 'nu littarate, so' uparaje”. È deciso nella volontà di progredire, di realizzare la vocazione ontologica ad essere di più, di migliorarsi per vivere il bene, il vero, il bello, in un mondo che riconosca la santa Provvidenza, perché 'a bona sorte 'a manne Ddije!. 

“Meste Liborie” di via Cava 
A Taranto trova la donna della sua vita, Vincenza Candida, 'na cumpagna sande, a cui affida il suo cuore innamorato, arricchendo la famiglia di ben sei figli, file buene e bedde tutte quande: Umberto, Amedeo, Mario, Armando, Ercole (gli ultimi due poeti dialettali sulle orme paterne) e la tanto attesa Ida. 
Avvia un’attività artigianale nell’Isola, in via Cava; è benvoluto e stimato per la mitezza, per la disponibilità verso tutti per i quali è Meste Liborie, pronto a stare dalla parte del più povero. Denuncia una “panivendola” ingorda e usuraia, che vende a prezzo maggiorato pane di pessima qualità a un povero cavamonti, il quale, non guadagnando abbastanza, è costretto a dare in pegno il suo vestito.   

Il Liborio civis
Con Leonardo Piangiolino, Nicola Spagnoletti, Nicola Semitaio, Vincenzo Pica, Tommaso Villari ed altri amici, è tra i fondatori d’una Società di Mutuo Soccorso che, fra l'altro, costituisce il “maritaggio”, un fondo dotale per consentire alle ragazze meno abbienti di avere il necessario corredo per sposarsi. Con sentimenti sinceramente patriottici, è il primo in città a lanciare un pubblico appello al sindaco Francesco Troilo per erigere un monumento ai Cinquecento caduti tarantini della Prima guerra mondiale. 
È consigliere comunale nell'Amministrazione guidata dal sindaco Vincenzo Damasco, consigliere della Banca Agricola e Commerciale, è anche tra i fondatori di una scuola serale popolare gratuita intitolata a Francesco Bruno, affiancato dall'amm. Curzio Maccaroni, dal dott. Vincenzo Guadalupi, dal capo stazione don Mimì Comunale, dal prof. Angelo Iurlaro e da altre benemerite personalità locali. 

La poesia come luogo di amicizia 
La sua bottega di via Cava è il salotto della poesia dialettale tarantina, dove è possibile incontrare Niccolò Tommaso Portacci, Michele De Noto, Angelo De Florio, Vincenzo Gigante, Cataldo e Giannino Acquaviva, Antonio Torro … Quest’ultimo parla di Tebano nel 1925 come «uno degli uomini più puri e sinceri della nostra Taranto. Lavoratore senza riposo, padre di famiglia esemplare, poeta che ha intatte le visioni della prima età, sa elevarsi sulla folla alla ricerca del bene, del bello, del vero». 

Le rime in note 
Tutte belle le poesie dialettali di intonazione popolaresca, molte delle quali musicate con successo. 
Tagghi’a ccurte, Fulumè parla dei sospiri dell’innamorato per la sua ragazza bionda rizzetedde e della voglia di vincere con l’amore le miserie che impediscono le giuste nozze; è musicata dal M° Vincenzo Quintavolo e premiata con diploma d’onore nella I Festa della Canzone del 1932, indetta dal Dopolavoro Provinciale di Taranto. 
Bedda Uagnedda, la sola stella creata da Dio, 'a sola stedda ca crijò Ddije
, oggi ricordata nei vicoletti della città vecchia solo da qualche meno giovane, viene musicata dal M° Quintavolo e presentata con successo alla Piedigrotta tarantina del 7 settembre 1919. 
‘A trambi’ a Tarde esprime la gioia per l’inizio dei lavori della tranvia cittadina con una tarantella musicata dal M° Quintavolo nel 1922. 
Altri versi di Tebano sono felicemente musicati come A Feste de l’uve dal M° Facilla in occasione della III Festa dell’Uva del 1932, Sce’ vennemame dal M° Luca De Luca per la Piedigrotta tarantina del 1933, A vennegne dal M° Quintavolo e presentata alla III Festa nazionale dell’uva del 1936. 

La poesia come lode 
Tante le poesie con sincere lodi ad amici e a personalità locali: a Vito Forleo onorato per il suo “ideale: / raccoglier poesia dialettale / dei poeti di Taranto Bimare”; a Emilio Consiglio, a cui confessa che scrive qualche poesia, abbracciando la fantasia, per dimenticare le contrarietà della vita e pe scurdarle, abbrazz'a fandasije, / vèche ci 'addrizze 'nquarche poisije!; ad Antonio Torro, assennato con tanto sale in zucca (Tu tiene a quidde cokkre tanda sale) e con un’anima candida e occhi belli come due stelle (Anema chiare tiene cum'a neve, / uèchie lucende cume so' do' stedde); a Giovanni Paisiello che merita di essere giustamente onorato dalla sua città; a Cosimo Palumbo, Giovanni Acquaviva, Nicolino Gigante, Michele De Noto, Filippo Di Roma, Angelo De Florio. Dedica poesie in lingua italiana ad Alessandro Criscuolo, Luigi Di Serio, Angelo Berardi, Gabriella Sommi Picenardi, Giovanni Spartera, Carlo Natale, Umberto Notari, Maria Luisa Tamborino, mons. Ferdinando Bernardi. 

Le poesie gnomiche 
La prolifica produzione letteraria comprende fiabe e leggende in versi con animali parlanti (la tartaruga e la lepre, la rana e il lucertone, la pulce e l’elefante, la formica e la cicala, l’asino con la pecora e il lupo, la capra e i capretti, il gatto e il topolino, ecc.) con la finalità di consigliare, alla luce della sapienza popolare, una condotta di vita saggia, all’insegna del bene, in un mondo d’amare, perché Iddio ‘u munne c'à criate s'à d'amare

Una piazza per il poeta
Solo qualche anno fa, la precedente Amministrazione comunale ha dedicato una piazza al poeta nel quartiere “Tamburi” per onorarne la memoria e l’opera (raccolta in un testo del 1965, L’acquasale, curato dai figli Ercole e Armando). Ogni toponimo costituisce, soprattutto, un impegno per promuovere, ad un livello sempre più alto, la memoria delle nostre tradizioni, della lingua locale e di chi è stato benemerito nella storia della città. La poesia dei nostri poeti dialettali è un patrimonio che contribuisce non solo a conservare il passato, a mantenere viva un’appartenenza che si rischia di smarrire; è il fondamento, è l’anima della identità culturale di una comunità, senza la quale non si sa da dove si viene, né dove andare!

Guglielmo Matichecchia, Liborio Tebano, voce del vernacolo tarentino, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 18 novembre 2020, n. 230, p. 17.

martedì 17 novembre 2020

Un tarantino di quelli che han sempre a cuore la città nativa


Ottant’anni fa, domenica 17 novembre, la scomparsa “improvvisa e dolorosa” a Roma di Vincenzo Fago (Taranto, 28 aprile 1875). Gli è accanto la moglie Lilia, la donna del «soave nido… [che] …tanta dolcezza diede alla mia vita» e, trenta giorni prima che questa vita «a inabissar s’appresta» è ella «a raddolcir l’estremo mio cammino». Vincenzo Fago muore con la mano nella mano di Lilia con quella dolcezza di chi, nel suo ultimo sguardo, trova, come orizzonte, il volto della persona amata. Al cordoglio della famiglia partecipano gli amici più cari del mondo della cultura, della politica con messaggi provenienti da più parti anche dall’estero e, tra questi, non manca quello del sovrano che ha avuto modo di apprezzare personalmente l’opera preziosa di Fago per migliorare i rapporti tra l’Italia, l’Egitto e gli altri Paesi mussulmani che si affacciano nel Mediterraneo. 

Il volontario esilio
Poliglotta, studioso, storico, giornalista, diplomatico, è per la “Voce del Popolo” un «tarantino di quelli che han sempre a cuore l’immagine, il ricordo, l’amore della città nativa. Vincenzo Fago fa parte di quella “schiera di tarantini – nota il poeta e commediografo dialettale Cataldo Acquaviva (1885-1969) nel 1941 - ai quali questo nostro àmbito paesano troppo angusto e ristretto si manifestò per potervi svolgere convenientemente le forze vitali del proprio ingegno ed affermarsi nei campi più disparati del sapere e dell’arte”. Così Fago, terminati gli studi liceali, è esule volontario a Roma per laurearsi prima in lettere e poi in giurisprudenza e dove dal 1903 entra nell’organico delle biblioteche governative e, in particolare, nella Biblioteca nazionale centrale “Vittorio Emanuele II”, portando sempre «nel cuore - così lo ricorda l’amico Cesare Giulio Viola (1886-1958) - la luce dei tramonti jonici e il sentimento della natura, tipico dei lirici greci». 

La tarentinità
Fago è l’esempio di quella tarentinità di «ille terrarum … praeter omnes / angulus ridet» che, quando c’è, non si logora con la lontananza e con il tempo; si porta sempre con e dentro di sé, essendo - come afferma l’Autore di “Pater” - «una visione jonica dell’arte e della vita: un riallacciamento agli spiriti della Magna Grecia». La tarentinità è bellezza che ha radici profonde in una cultura che è ponte tra popoli e civiltà, che è nel suo passato di «nobilis et opulenta urbs» (Tito Livio), nella sua origine «circondata da un velo mitico e divino» (Ferdinand Gregorovius) e, non meno, in quel futuro di cui il presente dovrebbe avvertire molto più la grande responsabilità. 

Nel ricordo degli amici 
L’amico Renato Angarano, redattore della “Voce del Popolo”, ricorda il giovane Fago «bellissimo nell’aspetto, alto, eretto, elegante, ammirato e ambito da non poche elette donne del tempo»; è un abituale ospite dell’elegante salotto dell’archeologa Ersilia Caetani Lovatelli, la prima donna a far parte dell’Accademia dei Lincei, dove è “uno dei frequentatori più simpaticamente graditi” che sa «intendere dibattere, in acute trattazioni, i problemi fondamentali con sottili riferimenti alle glorie e alla potenza del passato e alle esigenze dell’avvenire» e dove è possibile incontrare i più noti esponenti della cultura letteraria italiana, tra i quali il Carducci e D’Annunzio. È un assiduo frequentatore della “terza saletta” del celebre Caffè Aragno di via del Corso, battezzata da Orio Vergani “il sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo”, dove Guelfo Civinini gli dedica una delle tante strofe divertenti riservate agli amici: «C’era pure Vincenzo Fago / col suo splendido gilè / che specchiava la sua imago / negli specchi del caffè». Vito Forleo, legato da giovanile amicizia, ricorda la felicità di Fago quando gli si riconosceva «di essere il banditore più ascoltato delle nostredelizie”» e la bella lettera con cui aveva presentato Taranto a Marinetti «sotto i più amabili aspetti, comprese lechiancarelle”». 

Da Taranto nel mondo
Fago non possiede solo una vasta cultura e notevoli qualità professionali. Infatti, Abbas Hilmy, ultimo Khedivè d’Egitto, gli riconosce “le charme et la droiture”, la gentilezza, il garbo, la probità e la rettitudine. È prestigioso l’incarico nel 1908 per allestire la Biblioteca universitaria a Il Cairo, dove lavora fino al 1912 o 1913. In tali anni, assume l’incarico di capo di gabinetto del principe Fuad, poi re d'Egitto; fonda l'Agenzia telegrafica italiana al Cairo. Negli anni successivi alterna brevi periodi di rientro alla Biblioteca nazionale di Roma con altri incarichi per il Ministero degli Esteri. Partecipa alla I guerra mondiale, come tenente di fanteria in Carnia e in missioni speciali in Grecia e a Costantinopoli per l'Ufficio Informazioni del Comando supremo, congedandosi nell'ottobre 1919. È in Anatolia presso Kemal Ataturk durante la guerra greco-turca (1919-1922) e, quindi, in Cirenaica e negli Stati Uniti, in varie missioni, per il Commissario dell'emigrazione. Nel 1926-1928 è incaricato della direzione dell'Ufficio scambi internazionali al Ministero della P.I. Prende parte dal 1926, con Luigi De Gregori, alle attività internazionali che portano alla nascita dell'IFLA (Federazione internazionale delle associazioni e istituzioni bibliotecarie), partecipando ai congressi di Atlantic City (1926) e Edimburgo (1927), diventando vicepresidente del Comitato internazionale dell’IFLA e segretario generale del I Congresso mondiale IFLA, tenuto a Roma e Venezia nel 1929. Fa parte nel 1930 del Comitato promotore dell'AIB (Associazione italiana biblioteche). È in servizio fino alla morte nella Biblioteca nazionale centrale di Roma, restando per lo più comandato altrove per le esigenze del Ministero degli Esteri. 

L’opera letteraria
Fago è apprezzato come poeta, critico d'arte e di letteratura, autore di varie opere di storia pugliese e sul mondo arabo. È l’autore nel 1906 del famoso saggio Taranto “La Voluttuosa„ (che con “Pater” di Viola fa parte di quelle letture della “tarentinità” che non dovrebbero mancare nell’abitazione di ogni tarentino). Collabora con la “Nuova Antologia”, compone la silloge XV poesie (1897), il saggio critico Leone Tolstoj. L’opera e l’uomo (1901), Il romanzo in Italia (1901), Nerone di Arrigo Boito (1901), Monumenti cristiani di Taranto (1903), la raccolta di poesie Discordanze (1905). Pubblica Arte araba. Arte araba nella Siria e in Egitto (1909), L’Università egiziana di Cairo (1909), Echi islamici: l’ultimo Khedive? (1914), Enver pascià, la Cirenaica e l’Egitto (1914), nonché saggi sul porto mercantile e sul museo di Taranto. 

Per sempre nella sua Taranto
Dopo la sua scomparsa, l’Amministrazione Comunale, con delibera del 28 novembre 1942 del commissario prefettizio Pietro Pampillonia, decide di onorarne la memoria, accogliendo la sua salma vicino a quelle di Antonio Russo e di Mario Costa, in una sepoltura perpetua che possa significare la gratitudine della città verso il figlio illustre da additare alle future generazioni, come esempio della migliore tarentinità.

Guglielmo Matichecchia, Un tarantino di quelli che han sempre a cuore la città nativa, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 17 novembre 2020, n. 229, p. 17.

lunedì 16 novembre 2020

LA NOTTE DI TARANTO: UNA QUESTIONE ANCORA APERTA


Ottant’anni fa, l’11 novembre 1940, nel giorno del settantunesimo genetliaco del re, mai alcuno avrebbe pensato che gli inglesi potessero partecipare ai festeggiamenti in onore di Vittorio Emanuele III con bengala al magnesio per illuminare la notte tarantina.

Una pagina nera
È una notte che rimane nella storia della città di Taranto, dell’Italia, della Marina militare e della Seconda guerra mondiale, come una delle pagine più dolorose, umilianti, una vergognosa «pagina nera», secondo una definizione riportata da Ciano nel suo diario, dove annota altresì che Mussolini «ha incassato bene il colpo e quasi sembra, in questi primi momenti, non averne valutata tutta la gravità».
È una notte terribile di orrori e di errori, di impreparazione e di disorganizzazione, di imprecazioni e di invocazioni, di paura e di disperazione, di pianti e di alte grida, di fuoco e di squassanti boati, di morti e di lutti, di danni ingenti e di pesante discredito per l’inadeguatezza e l’inaffidabilità delle nostre forze navali e dell’Italia che subiscono un altro affronto insieme alle pesanti sconfitte dell’esercito in Africa. È una notte che lascia ancora qualche importante domanda senza alcuna risposta, senza verità, inabissate e sepolte non casualmente in fondali inaccessibili.

Un bombardamento ben preparato
Il bombardamento della flotta italiana nel mare di Taranto, le vittime e i gravi danni alle navi non sono il risultato di un’occasionale azione militare degli aerosiluranti Swordfish della Royal Navy, in quanto è evidente l’accurata preparazione da parte di chi dispone di uomini, di mezzi appropriati, di nuove tecnologie, ma anche di conoscenze della realtà militare di Taranto, dei movimenti delle navi in entrata e in uscita, dei sistemi e delle strutture di difesa del naviglio all’ancora, in particolare, della protezione contraerea e di quella antisiluramento. L’ammiraglio Luigi Sansonetti, comandante della III Divisione incrociatori pesanti fino al luglio del 1941, fa pensare che gli inglesi possano avere delle spie prezzolate e che la città bimare possa ospitare “un nido di spie” a servizio della maestà d’oltre Manica, affermando «che le navi che partivano all'improvviso [dal porto di Taranto] non venivano, al contrario di quelle la cui partenza era prevista da tempo, attaccate dal nemico».
Non vanno ignorati l’inefficienza nella catena del comando piramidale della Marina militare, né la diversità di vedute tra i più alti gradi (l'amm. Domenico Cavagnari, Capo di Stato Maggiore della Marina, è al vertice e anacronisticamente ritiene che la Marina italiana non abbia bisogno di portaerei e di un’aviazione navale) e, non ultimo, il dilettantismo dei servizi segreti delle tre forze armate organizzati a compartimenti stagno. 

L’Operazione Judgment
Per gli aerosiluranti della Mediterranean Fleet (comandata dal contramm. Andrew Cunningham), nelle loro comunicazioni in codice, “tutti i fagiani sono nel nido” e, infatti, tra il Mar Grande e il Mar Piccolo sono all’ormeggio 6 corazzate (Cavour, Doria, Duilio, Vittorio Veneto, Littorio, Cesare), 7 incrociatori pesanti (Gorizia, Zara, Fiume, Trieste, Bolzano, Pola, Trento), 2 incrociatori (Duca degli Abruzzi, Garibaldi), 29 cacciatorpediniere, la nave appoggio Miraglia e, in più, 16 sommergibili, 5 torpediniere, 4 dragamine, un posamine, vari Mas e un vasto assortimento di mezzi ausiliari di diversa tipologia per un totale di circa 200 unità navali. Con l’inizio dell’Operazione Judgment, gli equipaggi dei 21 Swordfish decollano in due ondate dalla portaerei Illustrious verso il golfo di Taranto, rientrando con la perdita di appena due velivoli.

La verità di Churchill
Churchill può vantare nella Camera dei Comuni il successo militare che «torna a onore dell’aviazione della flotta e … influenza in modo decisivo l’equilibrio della potenza navale del Mediterraneo»; dirà altresì che «entro il suo inglorioso rifugio la flotta italiana è stata sconfitta; sconfitta che sarebbe stata considerata in modo completamente diverso dall’opinione pubblica se fosse stata subita in combattimento in mare aperto. La superiorità del nemico non gli è servita che per mettere in atto una difesa passiva. L’azione su Taranto rappresenta il punto culminante della disfatta italiana» e non meno del crollo del regime fascista e della nascita della repubblica. 

La notte del tradimento
Per i tarantini il bombardamento della flotta è il frutto del tradimento e, infatti, Giacinto Peluso racconta che «la gente della strada, dotata di senso comune, attribuiva il doloroso episodio ad una sola causa: il tradimento, non c'era altra risposta.
Per tradimento, tutta la flotta italiana era stata concentrata nei nostri due mari e tenuta immobile per mesi; per tradimento non si erano rimpiazzati i palloni asportati dal vento; per tradimento non si erano messe le reti intorno alle navi.
Corre anche insistente una voce secondo la quale la sera dell'11 novembre, in occasione del genetliaco di S.M. Vittorio Emanuele, gli ufficiali erano tutti al ricevimento organizzato al Circolo di Marina e non al loro posto di comando».

Gli eroi senza volto di Taranto
Mussolini si precipita a Taranto per rendersi personalmente conto dei danni alla flotta. Per le possibili riparazioni si è costretti, nonostante il rigore delle leggi razziali, a richiamare in servizio il pluridecorato generale del genio navale Umberto Pugliese (1880-1961) per dirigere il recupero e la riparazione delle navi colpite nel porto di Taranto. Dignitosamente, il gen. Pugliese chiede solo il rimborso delle spese di viaggio e l’autorizzazione a indossare ancora l’uniforme di cui era stato ingiustamente privato. Le maestranze tarantine dell’Arsenale militare, con alto e generoso senso del dovere e con nobili sentimenti patriottici, arricchiscono la schiera degli eroi senza volto e, con prolungati orari di servizio, consentono alle navi di riprendere il mare, in tempi brevissimi e con sorpresa e ammirazione da parte della stessa marina nemica che continua a bombardare la base militare senza risparmiare le abitazioni civili del capoluogo jonico.
Solo dopo alcuni mesi, il 15 febbraio 1941, dieci giorni dopo una rapida visita di Vittorio Emanuele III alla base navale e una breve sosta nell’arsenale militare, si deciderà di “chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi” e, con un’ordinanza prefettizia, l’ingresso e l’uscita dalla città sarà possibile solo con un lasciapassare rilasciato dalla questura del Comune di residenza. 

Una pagina ancora aperta
Sulla notte di Taranto, a conferma di un’attenzione sempre attuale, ci sono fiumi d’inchiostro versati su giornali e riviste specializzate, in saggi e in racconti. Non pochi i convegni e gli incontri di studio, tra cui si ricordano quello di Giovinazzo (11 ottobre 2014) con la partecipazione dell’avv. tarantino Raffaele De Cataldis, recentemente scomparso, e quello di Taranto (27 novembre 2018) con gli interventi di Paola Petrone Albanese, Stefano Vinci, Claudio Rizza, Giosuè Allegrini, Vincenza Musardi Talò e la testimonianza di Paolo De Stefano. Tra i tanti che hanno scritto, vi sono alcuni protagonisti dell’epoca, storici, ricercatori e narratori e qui vanno ricordati Cesare Amé, Carlo De Risio, B.B. Schofield, Arrigo Petacco, Renzo De Felice, Indro Montanelli, Giorgio Candeloro, Antonino Trizzino, Francesco Mattesini. A livello locale, tra i numerosi autori, si rammentano Nino Bixio Lo Martire, Giovanni Acquaviva, Giacinto Peluso, Roberto Nistri, Stefano Vinci e, non ultimi, con un taglio più narrativo, Angelo Cardellicchio e Roberto Perrone.
Insomma, la notte di Taranto - definita, con i necessari distinguo, la Pearl Harbor italiana - dopo ottant’anni, resta ancora una pagina viva, una pagina aperta su cui la riflessione e la ricerca continuano.

Guglielmo Matichecchia, La notte di Taranto: una questione aperta, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 11 novembre 2020, n. 225, p. 17.

mercoledì 14 ottobre 2020

Titina Laserra e gli occhi dell'anima

Titina Laserra, dopo “Un pomeriggio d’estate” e “Cuori in tumulto”, fa dono di un'altra perla della sua bella ispirazione narrativa con “Gli occhi dell’anima”, pubblicato per i tipi della Scorpione Editrice di Piero Massafra.


Va subito detto che per Laserra forma e contenuto non sono estranei. La bellezza e la cura della forma, della parola pensata a cui sa dare forza e pienezza di significato, di un lessico appropriato, di un periodare con una punteggiatura che accompagna il ritmo dell’azione e il respiro del lettore, arricchiscono il contenuto sempre avvincente, una storia dei nostri tempi raccontata con quella sapienza del cuore che nutre sentimenti e valori perenni.

Il romanzo si fa apprezzare per l’organicità della struttura narrativa, che evidenzia l’equilibrato dosaggio delle parti e la loro piena armonia. Il protagonista Enrico è subito presentato per il suo essere “dignitoso e onesto” in una famiglia serena, unita, moralmente sana, normale, con la mamma Teresa, attenta, premurosa, fiduciosa, delicata e discreta e mai invadente, in un ambiente di lavoro, un ufficio legale, dove da giovane penalista è costretto a districarsi nella caoticità delle leggi, sapendo instaurare buoni rapporti con i colleghi e con il titolare, secondo il quale «lo studio è una famiglia e, quando è necessario, bisogna stare uniti ed aiutarsi».

Tutto ha inizio con un incontro casuale nella strada di una cittadina del sud, in cui non è difficile scorgere Taranto, tra Enrico e Mahira, una ragazza indiana dal passato oscuro e doloroso che giunge in Italia, interrompendo in India i suoi studi universitari e occupata ora come infermiera nel reparto di cardiologia del locale nosocomio. Tutto si svolge nell’arco di poco più di un anno, con un andamento serrato, incalzante, con una trama che sa essere avvincente e coinvolgente, che sa conquistare, con l’eleganza e il garbo d’una matura narrazione, l’attenzione e l’interesse del lettore, a cui si porgono significative riflessioni e descrizioni di un incantevole paesaggio presentato con tratti di sublime poesia, perché Laserra è sempre attenta anche alle più piccole sfumature, con uno spiccato gusto del particolare e del dettaglio.

Il romanzo affronta più temi. In primo piano, quello dell’amore, qualcosa che nasce all’improvviso e giammai imposto o consigliato, neanche dalle persone più vicine, più care; quel sentimento che nasce sempre con un incontro ed è presentato con l’iniziale emozione e timore, con la forza di sconvolgere l’anima e di far battere forte il cuore, di assorbire ogni pensiero dell’innamorato ed Enrico «non fa che pensare a quella sconosciuta che ha incontrato per caso», conquistato dal suo sguardo enigmatico e dolce, dalla sua immagine ormai fissata nella sua mente e nel suo cuore senza poterla dimenticare. Mahira, orfana della madre dalla nascita e cresciuta da Mansour, uomo dalla presenza ingombrante, possessivo, arrogante e violento, è l’amore contrastato, ostacolato in ragione di una cultura che, nel Paese di origine, consente a Mansour, compensato da una buona somma di denaro, di promettere Mahira in matrimonio al non più giovane amico Hassan, che giunge in Italia per pretendere il rispetto del patto stipulato. L’amore tra Enrico e Mahira è un amore di sentimenti e di sensi, con una sessualità mai fine a se stessa, mai morbosa, oscena e senza pudore; è un amore quasi impossibile quando si sfidano mondi diversi per la sopravvivenza di integralismi che tardano a scomparire.

È un romanzo in cui il rosa, il noir, la suspence e la tensione si intrecciano, in cui lo scorrere degli avvenimenti non è mai banale, scontato, sapendo essere sempre originale e con l’imprevedibilità dietro l’angolo.

È, soprattutto, un romanzo colto, dove in filigrana l’Autrice propone, con discrezione, pillole di virtù morale, di pedagogia, di religiosità, di sociologia, affrontando - tra gli altri - il tema dell’immigrazione visto nella «moltitudine di migranti che parte dalla propria terra, alla disperata ricerca di un luogo migliore dove vivere una vita più dignitosa, insieme alla propria famiglia, che fugge dalle città dilaniate dalla guerra e affamate» e che non comporta alcun respingimento quando da parte degli immigrati c’è la disponibilità «ad aprirsi ad un mondo diverso, nuovo, libero e ad accettare tutte le novità, ma anche le difficoltà di una società così lontana dalla propria … a integrarsi attraverso lo studio della lingua del paese che ospita ed il rispetto degli usi e dei costumi oltre che della religione». Altro tema che l’Autrice mette a fuoco è quello della condizione femminile ancora succube di stereotipi non facili da sradicare e di violenze da subire impunemente. Mahira è la vittima di un mondo che calpesta la dignità della donna, solo oggetto di piacere da comprare o da vendere, sempre e solamente da usare.

Un romanzo da leggere gradevolmente, con cui l’Autrice, con profonda onestà intellettuale, invita a guardare in faccia la realtà, a saperla affrontare, con coraggio e con dignità, perché  - questo è il sugo della storia, come direbbe uno dei giganti della nostra letteratura - nella vita «momenti tristi, bui, si alternano ad altri più sereni e ci rendono più forti e tenaci per superare quelle fasi negative della nostra esistenza».

La vena narrativa di Titina Laserra saprà certamente offrire altre pagine ancor più belle per i suoi tanti lettori e ammiratori!

Guglielmo Matichecchia, Titina Laserra e gli occhi dell’anima, in “Buonasera Taranto”, anno XXVIII, 14 ottobre 2020, n. 205, p. 17.


martedì 16 giugno 2020

La scomparsa di Giulio Giorello

Fano, 19 agosto 2019
Con Giulio Giorello (14 maggio 1945 - 15 maggio 2020) scompare uno degli ultimi intellettuali del nostro tempo. Allievo di Ludovico Geymonat, a sua volta maestro di generazioni di filosofi, è stato sempre un pensatore libero, che rifuggiva da ogni dogmatismo.

Non si sottraeva mai ad alcun confronto anche con chi sosteneva posizioni culturali e politiche non condivise. È stato il filosofo della libertà e giammai ha ritenuto che alcuno meritasse l'isolamento o l'esclusione in ragione di diverse scelte culturali e politiche.

venerdì 12 giugno 2020

Donne di Taranto: poesia in rosa di terra ionica

Undici poetesse con soggettività creativa, settantasette composizioni poetiche in versi liberi, un curatore con orientamento critico non stereotipato si ritrovano in “Donne di Taranto. Poesie e Canti”. Una raccolta, con l’odore della carta appena stampata e con la copertina d’un delicato color rosa; ultima nata, la dodicesima, nell’affermata Collana di “Saggi di Cultura Jonica”, edita dalla Editrice Scorpione di Piero Massafra e diretta da Paolo De Stefano e Lucio Pierri, benemeriti della nostra comunità culturale. Le poetesse sono Rosetta Baffi, Ester Cecere, Anna Fougez, Elena Gubitosa, Anna Marinelli, Rita Marinò Campo, Angela Mastronuzzi, José Minervini, Anna Petrone Albanese, Myriam Pierri (autrice, altresì, dell’autoritratto della copertina e dei disegni all’interno), Anna Tancorra, individuate “con equilibrio e misura” da Alberto Altamura, il curatore cui De Stefano e Pierri si sono affidati per la «profonda esperienza culturale, la intatta fede nell'arte poetica, la sua competenza professionale e di critico».

Un universo poetico aperto
Altamura, non nuovo ad iniziative di saggistica e di critica letteraria, non intende dar luogo a un canone poetico tarantino chiuso in se stesso che, in tal caso, risulterebbe certamente incompleto; con grande onestà intellettuale, dichiara di non voler esaurire l’universo poetico in rosa, il «quadro della poesia al femminile in terra ionica».

Il file rouge della silloge
Il file rouge che lega i versi è sia un’idea di poesia che porta il vero nello splendore di ciò che è puro e bello, sia, nella specificità della silloge, il nostro Novecento, un tempo «non solo da ricordare, ma anche tramandare», un cammino di vita in cui scorrono “l’affannarsi delle cose”, soprattutto, le immagini degli affetti familiari e del legame con Taranto, archetipo universale dell’identità culturale data dal natio loco, il cui amore stringe per tutta la vita; un secolo breve, ma complesso, vissuto con la magia della poesia, che è sempre «un aprirsi dell’essere verso dentro e verso fuori al tempo stesso. È - come afferma Maria Zambrano - un udire nel silenzio e un vedere nell’oscurità».

L’amore per Taranto
La città natia è in “Taranto” e in “Un giorno a Taranto” di Rosetta Baffi; in “Libeccio” di Anna Tancorra; nel “Sogno paradisiaco” di Angela Mastronuzzi; in “Persefone Gaia in trono” di José Minervini; ne “Il Galeso” di Anna Petrone Albanese; in “Di mare e di terra” di Anna Marinelli; in “Gioiello dello Jonio” di Myriam Pierri.

Gli affetti familiari
È il ricordo del padre che prevale, con ungarettiano “battito di nostalgia”, negli affetti familiari delle poetesse: in “Morte del Padre” di Baffi; in “A mio padre” di Rita Marinò Campo; in “A mio padre” di Anna Petrone Albanese; in “A mio padre” di José Minervini, la quale dedica una lirica “A mia nonna, Carmela Conte” e un’altra “A mia madre”.

La morte e il dolore
Il curatore, nella non facile selezione delle liriche, pone la sua attenzione su quelle in cui, con personale sensibilità poetica, si affronta il tema della morte, particolarmente con Baffi in “La soglia”, “Sull’altra riva” e “Non so più attendere”; con Tancorra “Nel rifugio”; con Ester Cecere in “Non ditemi di Natale” e nell’“Arcobaleno infranto”.

Il sentimento della solidarietà
Altamura aggiunge nella raccolta anche poesie con forte sensibilità sociale, tra le quali, “Non giudicare” e “Orfano” e “Rifare” di Elena Gubitosa, “19 aprile 2015” di José Minervini e “Il solco” di Anna Petrone Albanese.

Umano e inumano
Il discrimine tra umano e inumano, tra bene e male, tra essere e non essere, tra essere e apparire non è così semplice sempre e per tutti: il «chi io sia» è la domanda poeticamente posta ne “L’identità” di Anna Marinelli, in “Ad una piuma” e ne “Il raglio umano” di Anna Fougez, giammai una spensierata donna di spettacolo.

Pensare e poetare
Si potrebbe continuare con la lettura e farsi conquistare dalle altre poesie della silloge, che non è un punto di arrivo nella poesia al femminile della comunità ionica; può ben essere generativa d’una successiva edizione che i direttori della collana, il curatore e l’editore sapranno, al più presto, mettere in cantiere, ringraziando anche le poetesse per aver testimoniato la prossimità della poesia e del pensiero. L’Heidegger filosofo e poeta, secondo il quale «ogni meditante pensare è un poetare, ogni poetare un pensare» ci permetterà di parafrasare un suo verso per dire che la donna è la sua poesia e la sua bellezza qui incanta!

Guglielmo Matichecchia, Donne di Taranto: poesie in rosa di terra ionica, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 12 giugno 2020, n. 122, p. 11.

mercoledì 27 maggio 2020

Dante Alighieri conquista Karl Marx


L’irresistibile fascino de “La Divina Commedia” conquista anche Karl Marx (1818-1883), il teorico del materialismo dialettico e storico, autore, con F. Engels, del “Manifest der Kommunistischen Partei”. Il «poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra» supera la ristrettezza d’una concezione della religione come gemito degli oppressi, come sentimento di un mondo senza cuore; la sua armonia, direbbe Foscolo, «vince di  mille secoli il silenzio». 

Il poeta prediletto
Nel monumentale “Das Kapital”, l’opera più importante e conosciuta del pensatore tedesco, non mancano riferimenti ad autori della cultura classica e della migliore poesia di tutti i tempi. Risaltano puntuali citazioni di Dante, considerato “il poeta prediletto”, osannato dal fiorire del Romanticismo tedesco in Europa, letto da Marx nella lingua originale per apprendere l’italiano, pur essendo note le traduzioni integrali della “Commedia”, in lingua tedesca, a cura di Giovanni di Sassonia del 1849 e di Karl Witte del 1862 e, in inglese, di Henry Francis Cary del 1814.  
Marx predilige, in particolare, il Sommo Poeta che argomenta e arguisce, il suo essere acuto, oculato, mai fallace, sempre essenziale, immediato, sentenzioso, pungente e convincente. È il Dante a cui Virgilio si rivolge per ammonirlo ad essere “breve e arguto” (Pg XIII, 78), che sa presentare l’armonia dell’universo nell’eleganza di un breve verso, perle di verità eterna in una rima aperta alla grandezza dell’infinito, come «poca favilla gran fiamma seconda» (Pd I, 34).

Lascia dir le genti
Nel “Capitale”, Marx cita più volte Dante. Da subito, nella “Prefazione” alla I edizione del 25 luglio 1867, utilizza - non casualmente in chiusura - l’adattamento di un ammonimento rivolto da Virgilio al suo discepolo. Marx dichiara la disponibilità ad accogliere «ogni giudizio di critica scientifica» per la sua opera, ma respinge seccamente «i pregiudizi della cosiddetta pubblica opinione, cui non ho mai fatto concessioni». Innanzi a ogni forma di inescusabile superficialità e pressapochismo del pensiero, il treviriano scrive di far propria - a tal proposito - «la sentenza del grande fiorentino: “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!”».
La citazione del verso dantesco, riportata da Marx in italiano, è presa dal V Pg, adattando, senza alterare l’unità metrica dell’endecasillabo, il tredicesimo verso. Con questo Virgilio richiama Dante a non interessarsi a «ciò che quivi si pispiglia» e lo sollecita a stare come una torre salda che non ondeggia mai la sua cima per quanto i venti soffino: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti».

La moneta come mezzo di scambio
Marx cita Dante nel I libro de “Il Capitale” (dove esamina il processo di produzione del capitale) e, in particolare, nel III capitolo dove si tratta del denaro e della circolazione delle merci. In questo caso, Marx, dimostrando una conoscenza non libresca de “La Divina Commedia”, fa riferimento alla terzina 83-85 del Pd XXIV e propriamente alle seguenti parole rivolte da San Pietro a Dante, appena questi ha presentato la sua definizione della fede: «Assai bene è trascorsa [esposta] / d’esta moneta [della fede] già la lega [la definizione] e ’l peso [il significato]; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa [se la possiedi, che è cosa diversa]». I versi - liberati dalla metafora dantesca - sono utilizzati da Marx per spiegare, in un contesto profano, la funzione venale del denaro, strumento in grado di far passar di mano le merci nella misura in cui ad esso corrisponda una quantità reale, materiale e non solo immaginaria di oro.

La fabbrica è più dell’Inferno
Ancora un terzo richiamo a Dante, nell’VIII capitolo della III sezione del I libro de “Il Capitale”, dove si descrivono le dure condizioni di lavoro in alcune fabbriche inglesi e, nella fattispecie, in quelle che producono fiammiferi, applicando direttamente il fosforo bianco su asticelle di legno. Qui trovano lavoro fanciulli «cenciosi, denutriti, completamente alla mercé di se stessi, privi di qualunque istruzione» con meno di 13 anni, costretti a un orario giornaliero dalle 12 alle 15 ore, con turni notturni e con pasti irregolari da consumare «negli stessi locali di lavoro appestati dal fosforo». Tutto ciò provoca malattie altamente invalidanti, fino alla morte per setticemia.  «In una manifattura simile, Dante - osserva Marx - troverebbe superate le più crudeli fantasie del suo “Inferno”».
Nello stesso “Il Capitale”, Friedrich Engels è autore della “Prefazione” al III Libro e riconosce all’Italia, paese della classicità, di aver dato i natali al grandioso Dante, espressione «di classica ineguagliata perfezione».

Dante nelle opere prima del Capitale
Nel 1853, contestando quella stampa inglese che non apprezza la presenza di rifugiati politici e di esuli stranieri, Marx ricorda i versi 58-60 del Pd XV con cui il trisavolo Cacciaguida predice l’esilio di Dante: «Tu proverai sì come sa di sale l lo pane altrui, e come è duro calle l lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Nel 1855, stigmatizzando l’ignavia dei parlamentari inglesi, cita l’If III dove Dante colloca i pusillanimi che in vita non scelsero né il bene né il male e non seguirono alcun ideale.
Nel 1872 richiama, in una dichiarazione al Consiglio Generale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, lo stesso If III, 51 «ma guarda e passa».

Il signor Wogt
Nel 1860 dà alle stampe “Herr Wogt”, un pamphlet per difendersi dalle infamanti calunnie di Karl Wogt al soldo di Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte, cugino di Napoleone III. Marx riconosce in Wogt il diavolo dantesco: «Egli è bugiardo e padre di menzogna». È il verso 144 dell’If XXIII, dove si legge degli ipocriti che nascondono altro sotto una veste dorata e sfavillante.
Nello stesso pamphlet è ancora citato il verso 139 dell’If XXI («Ed egli avea del cul fatto trombetta»), accusando Wogt d’essere “una sorta di maestro cantore” tra i suoi sodali come il diavolo Barbariccia che, con lo sconcio rumore del sedere, dà il segnale convenuto per guidare il movimento degli altri diavoli.
Nel IV quarto capitolo Marx individua la provenienza delle notizie raccolte da Wogt nel «tristo sacco l che merda fa di quel che si trangugia», di cui ai versi 26-27 dell’If XXVIII.
Il quinto capitolo si apre con la citazione dei versi 116-119 dell’If XVIII: «Vidi un col capo sì di merda lordo / che non parea s’era laico o cherco. / Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì ’ngordo /di riguardar più me che li altri brutti?”». Qui il “brutto” Wogt è visto con il capo talmente ricolmo di escrementi da essere irriconoscibile e risentito della maggiore attenzione rispetto agli altri della stessa risma.
In Edouard Simon (1824-1879), un servile giornalista prussiano che vuol passare per francese, notoria spia bonapartista, un lacchè in cui, citando i versi 57-60 dell’If XI («s’annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura»), Marx ritrova il carattere degli ipocriti, adulatori, maghi, falsari, ladri, ruffiani, barattieri e altri simili peccatori dell’VIII cerchio infernale.

QUI CONVIEN LASCIAR OGNI SOSPETTO 
Anche nelle altre opere di Marx si incontrano richiami danteschi funzionali all’argomentare del pensatore tedesco, che, ben conoscendo l’opera di Dante, sapeva scrutare tra gli
endecasillabi di questi. Nell’Introduzione del saggio del 1859, “Per la critica dell’economia politica”, Marx richiama la famosa epigrafe all’ingresso dell’Inferno (If III, 14-15) e avverte che «sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’Inferno, si deve porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto / ogni viltà convien che qui sia morta».

LA POESIA DI DANTE PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
I riconoscimenti di Marx e di Engels - pur non avendo favorito nelle Repubbliche socialiste
sovietiche (URSS) una più ampia diffusione delle opere di quello che T.S. Eliot ha definito «il più universale dei poeti di lingua moderna» - non hanno certamente posto veti e censure, trovando, in quanti esprimono consenso o dissenso verso il regime, sempre unanime approvazione per l’immortale poesia che è patrimonio dell’umanità!

Guglielmo Matichecchia
Società Dante Alighieri
Comitato di Taranto


(Guglielmo Matichecchia, Dante Alighieri conquista Karl Marx, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 27 maggio 2020, n. 111, p. 11)