mercoledì 14 ottobre 2020

Titina Laserra e gli occhi dell'anima

Titina Laserra, dopo “Un pomeriggio d’estate” e “Cuori in tumulto”, fa dono di un'altra perla della sua bella ispirazione narrativa con “Gli occhi dell’anima”, pubblicato per i tipi della Scorpione Editrice di Piero Massafra.


Va subito detto che per Laserra forma e contenuto non sono estranei. La bellezza e la cura della forma, della parola pensata a cui sa dare forza e pienezza di significato, di un lessico appropriato, di un periodare con una punteggiatura che accompagna il ritmo dell’azione e il respiro del lettore, arricchiscono il contenuto sempre avvincente, una storia dei nostri tempi raccontata con quella sapienza del cuore che nutre sentimenti e valori perenni.

Il romanzo si fa apprezzare per l’organicità della struttura narrativa, che evidenzia l’equilibrato dosaggio delle parti e la loro piena armonia. Il protagonista Enrico è subito presentato per il suo essere “dignitoso e onesto” in una famiglia serena, unita, moralmente sana, normale, con la mamma Teresa, attenta, premurosa, fiduciosa, delicata e discreta e mai invadente, in un ambiente di lavoro, un ufficio legale, dove da giovane penalista è costretto a districarsi nella caoticità delle leggi, sapendo instaurare buoni rapporti con i colleghi e con il titolare, secondo il quale «lo studio è una famiglia e, quando è necessario, bisogna stare uniti ed aiutarsi».

Tutto ha inizio con un incontro casuale nella strada di una cittadina del sud, in cui non è difficile scorgere Taranto, tra Enrico e Mahira, una ragazza indiana dal passato oscuro e doloroso che giunge in Italia, interrompendo in India i suoi studi universitari e occupata ora come infermiera nel reparto di cardiologia del locale nosocomio. Tutto si svolge nell’arco di poco più di un anno, con un andamento serrato, incalzante, con una trama che sa essere avvincente e coinvolgente, che sa conquistare, con l’eleganza e il garbo d’una matura narrazione, l’attenzione e l’interesse del lettore, a cui si porgono significative riflessioni e descrizioni di un incantevole paesaggio presentato con tratti di sublime poesia, perché Laserra è sempre attenta anche alle più piccole sfumature, con uno spiccato gusto del particolare e del dettaglio.

Il romanzo affronta più temi. In primo piano, quello dell’amore, qualcosa che nasce all’improvviso e giammai imposto o consigliato, neanche dalle persone più vicine, più care; quel sentimento che nasce sempre con un incontro ed è presentato con l’iniziale emozione e timore, con la forza di sconvolgere l’anima e di far battere forte il cuore, di assorbire ogni pensiero dell’innamorato ed Enrico «non fa che pensare a quella sconosciuta che ha incontrato per caso», conquistato dal suo sguardo enigmatico e dolce, dalla sua immagine ormai fissata nella sua mente e nel suo cuore senza poterla dimenticare. Mahira, orfana della madre dalla nascita e cresciuta da Mansour, uomo dalla presenza ingombrante, possessivo, arrogante e violento, è l’amore contrastato, ostacolato in ragione di una cultura che, nel Paese di origine, consente a Mansour, compensato da una buona somma di denaro, di promettere Mahira in matrimonio al non più giovane amico Hassan, che giunge in Italia per pretendere il rispetto del patto stipulato. L’amore tra Enrico e Mahira è un amore di sentimenti e di sensi, con una sessualità mai fine a se stessa, mai morbosa, oscena e senza pudore; è un amore quasi impossibile quando si sfidano mondi diversi per la sopravvivenza di integralismi che tardano a scomparire.

È un romanzo in cui il rosa, il noir, la suspence e la tensione si intrecciano, in cui lo scorrere degli avvenimenti non è mai banale, scontato, sapendo essere sempre originale e con l’imprevedibilità dietro l’angolo.

È, soprattutto, un romanzo colto, dove in filigrana l’Autrice propone, con discrezione, pillole di virtù morale, di pedagogia, di religiosità, di sociologia, affrontando - tra gli altri - il tema dell’immigrazione visto nella «moltitudine di migranti che parte dalla propria terra, alla disperata ricerca di un luogo migliore dove vivere una vita più dignitosa, insieme alla propria famiglia, che fugge dalle città dilaniate dalla guerra e affamate» e che non comporta alcun respingimento quando da parte degli immigrati c’è la disponibilità «ad aprirsi ad un mondo diverso, nuovo, libero e ad accettare tutte le novità, ma anche le difficoltà di una società così lontana dalla propria … a integrarsi attraverso lo studio della lingua del paese che ospita ed il rispetto degli usi e dei costumi oltre che della religione». Altro tema che l’Autrice mette a fuoco è quello della condizione femminile ancora succube di stereotipi non facili da sradicare e di violenze da subire impunemente. Mahira è la vittima di un mondo che calpesta la dignità della donna, solo oggetto di piacere da comprare o da vendere, sempre e solamente da usare.

Un romanzo da leggere gradevolmente, con cui l’Autrice, con profonda onestà intellettuale, invita a guardare in faccia la realtà, a saperla affrontare, con coraggio e con dignità, perché  - questo è il sugo della storia, come direbbe uno dei giganti della nostra letteratura - nella vita «momenti tristi, bui, si alternano ad altri più sereni e ci rendono più forti e tenaci per superare quelle fasi negative della nostra esistenza».

La vena narrativa di Titina Laserra saprà certamente offrire altre pagine ancor più belle per i suoi tanti lettori e ammiratori!

Guglielmo Matichecchia, Titina Laserra e gli occhi dell’anima, in “Buonasera Taranto”, anno XXVIII, 14 ottobre 2020, n. 205, p. 17.


martedì 16 giugno 2020

La scomparsa di Giulio Giorello

Fano, 19 agosto 2019
Con Giulio Giorello (14 maggio 1945 - 15 maggio 2020) scompare uno degli ultimi intellettuali del nostro tempo. Allievo di Ludovico Geymonat, a sua volta maestro di generazioni di filosofi, è stato sempre un pensatore libero, che rifuggiva da ogni dogmatismo.

Non si sottraeva mai ad alcun confronto anche con chi sosteneva posizioni culturali e politiche non condivise. È stato il filosofo della libertà e giammai ha ritenuto che alcuno meritasse l'isolamento o l'esclusione in ragione di diverse scelte culturali e politiche.

venerdì 12 giugno 2020

Donne di Taranto: poesia in rosa di terra ionica

Undici poetesse con soggettività creativa, settantasette composizioni poetiche in versi liberi, un curatore con orientamento critico non stereotipato si ritrovano in “Donne di Taranto. Poesie e Canti”. Una raccolta, con l’odore della carta appena stampata e con la copertina d’un delicato color rosa; ultima nata, la dodicesima, nell’affermata Collana di “Saggi di Cultura Jonica”, edita dalla Editrice Scorpione di Piero Massafra e diretta da Paolo De Stefano e Lucio Pierri, benemeriti della nostra comunità culturale. Le poetesse sono Rosetta Baffi, Ester Cecere, Anna Fougez, Elena Gubitosa, Anna Marinelli, Rita Marinò Campo, Angela Mastronuzzi, José Minervini, Anna Petrone Albanese, Myriam Pierri (autrice, altresì, dell’autoritratto della copertina e dei disegni all’interno), Anna Tancorra, individuate “con equilibrio e misura” da Alberto Altamura, il curatore cui De Stefano e Pierri si sono affidati per la «profonda esperienza culturale, la intatta fede nell'arte poetica, la sua competenza professionale e di critico».

Un universo poetico aperto
Altamura, non nuovo ad iniziative di saggistica e di critica letteraria, non intende dar luogo a un canone poetico tarantino chiuso in se stesso che, in tal caso, risulterebbe certamente incompleto; con grande onestà intellettuale, dichiara di non voler esaurire l’universo poetico in rosa, il «quadro della poesia al femminile in terra ionica».

Il file rouge della silloge
Il file rouge che lega i versi è sia un’idea di poesia che porta il vero nello splendore di ciò che è puro e bello, sia, nella specificità della silloge, il nostro Novecento, un tempo «non solo da ricordare, ma anche tramandare», un cammino di vita in cui scorrono “l’affannarsi delle cose”, soprattutto, le immagini degli affetti familiari e del legame con Taranto, archetipo universale dell’identità culturale data dal natio loco, il cui amore stringe per tutta la vita; un secolo breve, ma complesso, vissuto con la magia della poesia, che è sempre «un aprirsi dell’essere verso dentro e verso fuori al tempo stesso. È - come afferma Maria Zambrano - un udire nel silenzio e un vedere nell’oscurità».

L’amore per Taranto
La città natia è in “Taranto” e in “Un giorno a Taranto” di Rosetta Baffi; in “Libeccio” di Anna Tancorra; nel “Sogno paradisiaco” di Angela Mastronuzzi; in “Persefone Gaia in trono” di José Minervini; ne “Il Galeso” di Anna Petrone Albanese; in “Di mare e di terra” di Anna Marinelli; in “Gioiello dello Jonio” di Myriam Pierri.

Gli affetti familiari
È il ricordo del padre che prevale, con ungarettiano “battito di nostalgia”, negli affetti familiari delle poetesse: in “Morte del Padre” di Baffi; in “A mio padre” di Rita Marinò Campo; in “A mio padre” di Anna Petrone Albanese; in “A mio padre” di José Minervini, la quale dedica una lirica “A mia nonna, Carmela Conte” e un’altra “A mia madre”.

La morte e il dolore
Il curatore, nella non facile selezione delle liriche, pone la sua attenzione su quelle in cui, con personale sensibilità poetica, si affronta il tema della morte, particolarmente con Baffi in “La soglia”, “Sull’altra riva” e “Non so più attendere”; con Tancorra “Nel rifugio”; con Ester Cecere in “Non ditemi di Natale” e nell’“Arcobaleno infranto”.

Il sentimento della solidarietà
Altamura aggiunge nella raccolta anche poesie con forte sensibilità sociale, tra le quali, “Non giudicare” e “Orfano” e “Rifare” di Elena Gubitosa, “19 aprile 2015” di José Minervini e “Il solco” di Anna Petrone Albanese.

Umano e inumano
Il discrimine tra umano e inumano, tra bene e male, tra essere e non essere, tra essere e apparire non è così semplice sempre e per tutti: il «chi io sia» è la domanda poeticamente posta ne “L’identità” di Anna Marinelli, in “Ad una piuma” e ne “Il raglio umano” di Anna Fougez, giammai una spensierata donna di spettacolo.

Pensare e poetare
Si potrebbe continuare con la lettura e farsi conquistare dalle altre poesie della silloge, che non è un punto di arrivo nella poesia al femminile della comunità ionica; può ben essere generativa d’una successiva edizione che i direttori della collana, il curatore e l’editore sapranno, al più presto, mettere in cantiere, ringraziando anche le poetesse per aver testimoniato la prossimità della poesia e del pensiero. L’Heidegger filosofo e poeta, secondo il quale «ogni meditante pensare è un poetare, ogni poetare un pensare» ci permetterà di parafrasare un suo verso per dire che la donna è la sua poesia e la sua bellezza qui incanta!

Guglielmo Matichecchia, Donne di Taranto: poesie in rosa di terra ionica, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 12 giugno 2020, n. 122, p. 11.

mercoledì 27 maggio 2020

Dante Alighieri conquista Karl Marx


L’irresistibile fascino de “La Divina Commedia” conquista anche Karl Marx (1818-1883), il teorico del materialismo dialettico e storico, autore, con F. Engels, del “Manifest der Kommunistischen Partei”. Il «poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra» supera la ristrettezza d’una concezione della religione come gemito degli oppressi, come sentimento di un mondo senza cuore; la sua armonia, direbbe Foscolo, «vince di  mille secoli il silenzio». 

Il poeta prediletto
Nel monumentale “Das Kapital”, l’opera più importante e conosciuta del pensatore tedesco, non mancano riferimenti ad autori della cultura classica e della migliore poesia di tutti i tempi. Risaltano puntuali citazioni di Dante, considerato “il poeta prediletto”, osannato dal fiorire del Romanticismo tedesco in Europa, letto da Marx nella lingua originale per apprendere l’italiano, pur essendo note le traduzioni integrali della “Commedia”, in lingua tedesca, a cura di Giovanni di Sassonia del 1849 e di Karl Witte del 1862 e, in inglese, di Henry Francis Cary del 1814.  
Marx predilige, in particolare, il Sommo Poeta che argomenta e arguisce, il suo essere acuto, oculato, mai fallace, sempre essenziale, immediato, sentenzioso, pungente e convincente. È il Dante a cui Virgilio si rivolge per ammonirlo ad essere “breve e arguto” (Pg XIII, 78), che sa presentare l’armonia dell’universo nell’eleganza di un breve verso, perle di verità eterna in una rima aperta alla grandezza dell’infinito, come «poca favilla gran fiamma seconda» (Pd I, 34).

Lascia dir le genti
Nel “Capitale”, Marx cita più volte Dante. Da subito, nella “Prefazione” alla I edizione del 25 luglio 1867, utilizza - non casualmente in chiusura - l’adattamento di un ammonimento rivolto da Virgilio al suo discepolo. Marx dichiara la disponibilità ad accogliere «ogni giudizio di critica scientifica» per la sua opera, ma respinge seccamente «i pregiudizi della cosiddetta pubblica opinione, cui non ho mai fatto concessioni». Innanzi a ogni forma di inescusabile superficialità e pressapochismo del pensiero, il treviriano scrive di far propria - a tal proposito - «la sentenza del grande fiorentino: “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!”».
La citazione del verso dantesco, riportata da Marx in italiano, è presa dal V Pg, adattando, senza alterare l’unità metrica dell’endecasillabo, il tredicesimo verso. Con questo Virgilio richiama Dante a non interessarsi a «ciò che quivi si pispiglia» e lo sollecita a stare come una torre salda che non ondeggia mai la sua cima per quanto i venti soffino: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti».

La moneta come mezzo di scambio
Marx cita Dante nel I libro de “Il Capitale” (dove esamina il processo di produzione del capitale) e, in particolare, nel III capitolo dove si tratta del denaro e della circolazione delle merci. In questo caso, Marx, dimostrando una conoscenza non libresca de “La Divina Commedia”, fa riferimento alla terzina 83-85 del Pd XXIV e propriamente alle seguenti parole rivolte da San Pietro a Dante, appena questi ha presentato la sua definizione della fede: «Assai bene è trascorsa [esposta] / d’esta moneta [della fede] già la lega [la definizione] e ’l peso [il significato]; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa [se la possiedi, che è cosa diversa]». I versi - liberati dalla metafora dantesca - sono utilizzati da Marx per spiegare, in un contesto profano, la funzione venale del denaro, strumento in grado di far passar di mano le merci nella misura in cui ad esso corrisponda una quantità reale, materiale e non solo immaginaria di oro.

La fabbrica è più dell’Inferno
Ancora un terzo richiamo a Dante, nell’VIII capitolo della III sezione del I libro de “Il Capitale”, dove si descrivono le dure condizioni di lavoro in alcune fabbriche inglesi e, nella fattispecie, in quelle che producono fiammiferi, applicando direttamente il fosforo bianco su asticelle di legno. Qui trovano lavoro fanciulli «cenciosi, denutriti, completamente alla mercé di se stessi, privi di qualunque istruzione» con meno di 13 anni, costretti a un orario giornaliero dalle 12 alle 15 ore, con turni notturni e con pasti irregolari da consumare «negli stessi locali di lavoro appestati dal fosforo». Tutto ciò provoca malattie altamente invalidanti, fino alla morte per setticemia.  «In una manifattura simile, Dante - osserva Marx - troverebbe superate le più crudeli fantasie del suo “Inferno”».
Nello stesso “Il Capitale”, Friedrich Engels è autore della “Prefazione” al III Libro e riconosce all’Italia, paese della classicità, di aver dato i natali al grandioso Dante, espressione «di classica ineguagliata perfezione».

Dante nelle opere prima del Capitale
Nel 1853, contestando quella stampa inglese che non apprezza la presenza di rifugiati politici e di esuli stranieri, Marx ricorda i versi 58-60 del Pd XV con cui il trisavolo Cacciaguida predice l’esilio di Dante: «Tu proverai sì come sa di sale l lo pane altrui, e come è duro calle l lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Nel 1855, stigmatizzando l’ignavia dei parlamentari inglesi, cita l’If III dove Dante colloca i pusillanimi che in vita non scelsero né il bene né il male e non seguirono alcun ideale.
Nel 1872 richiama, in una dichiarazione al Consiglio Generale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, lo stesso If III, 51 «ma guarda e passa».

Il signor Wogt
Nel 1860 dà alle stampe “Herr Wogt”, un pamphlet per difendersi dalle infamanti calunnie di Karl Wogt al soldo di Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte, cugino di Napoleone III. Marx riconosce in Wogt il diavolo dantesco: «Egli è bugiardo e padre di menzogna». È il verso 144 dell’If XXIII, dove si legge degli ipocriti che nascondono altro sotto una veste dorata e sfavillante.
Nello stesso pamphlet è ancora citato il verso 139 dell’If XXI («Ed egli avea del cul fatto trombetta»), accusando Wogt d’essere “una sorta di maestro cantore” tra i suoi sodali come il diavolo Barbariccia che, con lo sconcio rumore del sedere, dà il segnale convenuto per guidare il movimento degli altri diavoli.
Nel IV quarto capitolo Marx individua la provenienza delle notizie raccolte da Wogt nel «tristo sacco l che merda fa di quel che si trangugia», di cui ai versi 26-27 dell’If XXVIII.
Il quinto capitolo si apre con la citazione dei versi 116-119 dell’If XVIII: «Vidi un col capo sì di merda lordo / che non parea s’era laico o cherco. / Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì ’ngordo /di riguardar più me che li altri brutti?”». Qui il “brutto” Wogt è visto con il capo talmente ricolmo di escrementi da essere irriconoscibile e risentito della maggiore attenzione rispetto agli altri della stessa risma.
In Edouard Simon (1824-1879), un servile giornalista prussiano che vuol passare per francese, notoria spia bonapartista, un lacchè in cui, citando i versi 57-60 dell’If XI («s’annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura»), Marx ritrova il carattere degli ipocriti, adulatori, maghi, falsari, ladri, ruffiani, barattieri e altri simili peccatori dell’VIII cerchio infernale.

QUI CONVIEN LASCIAR OGNI SOSPETTO 
Anche nelle altre opere di Marx si incontrano richiami danteschi funzionali all’argomentare del pensatore tedesco, che, ben conoscendo l’opera di Dante, sapeva scrutare tra gli
endecasillabi di questi. Nell’Introduzione del saggio del 1859, “Per la critica dell’economia politica”, Marx richiama la famosa epigrafe all’ingresso dell’Inferno (If III, 14-15) e avverte che «sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’Inferno, si deve porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto / ogni viltà convien che qui sia morta».

LA POESIA DI DANTE PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
I riconoscimenti di Marx e di Engels - pur non avendo favorito nelle Repubbliche socialiste
sovietiche (URSS) una più ampia diffusione delle opere di quello che T.S. Eliot ha definito «il più universale dei poeti di lingua moderna» - non hanno certamente posto veti e censure, trovando, in quanti esprimono consenso o dissenso verso il regime, sempre unanime approvazione per l’immortale poesia che è patrimonio dell’umanità!

Guglielmo Matichecchia
Società Dante Alighieri
Comitato di Taranto


(Guglielmo Matichecchia, Dante Alighieri conquista Karl Marx, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 27 maggio 2020, n. 111, p. 11)









giovedì 16 aprile 2020

Di Palma e il porto che non c'è


Il 13 aprile è ricorso l’anniversario della prematura scomparsa di Federico Di Palma (17.1.1869 - 13.4.1916) che all’inizio del secolo scorso è tra i deputati della provincia di Lecce, eletto per tre legislature nel collegio uninominale di Taranto, comprendente i comuni di Massafra, Grottaglie, Monteiasi e Montemesola.

Di Palma, nato nella città delle ceramiche, giornalista parlamentare per “Il Mattino” di Napoli, è nella Camera dei deputati una delle voci più autorevoli e ascoltate, sia in Italia che all’estero, quando si tratta di politica navale, sia militare che mercantile; è apprezzato per la spiccata competenza dei suoi interventi, quando la discussione riguarda, in particolare, il bilancio del ministero della Marina.
Piace ricordare - anche per le riflessioni che, per certi aspetti, si possono riportare alla realtà attuale - il suo vibrante discorso del 6 marzo 1913 nell’aula di Montecitorio, nel corso della discussione sul bilancio di previsione del ministero dei lavori pubblici per l’esercizio finanziario dal 1° luglio 1913 al 30 giugno 1914.

Senza porto mercantile
Di Palma affronta il problema del porto mercantile di Taranto, denunciando che, di fatto, la città è priva di tale importante infrastruttura: «Ebbene, o signori, diciamo la verità, con parole crude e sincere: … Taranto è ancora senza porto mercantile!».
Sì, perché non si può chiamare porto quello ubicato nella parte meno adatta della città, dove la sola diga di ponente non assicura la tranquillità dello specchio d’acqua, dove i fondali molto bassi non consentono l’entrata di piroscafi nemmeno di medio tonnellaggio, dove «la miserevole insufficienza» delle banchine di neppure 170 metri non consente l’attracco di modesti piroscafi, dove mancano collegamenti alla rete stradale e ferroviaria per raggiungere i centri di consumo e produzione più vicini, dove la costruzione d’un secondo molo a levante, appaltata dopo otto anni dall’approvazione, viene interrotta senza una fondata ragione. Di fatto, Taranto è dotata di un porticciolo che la esclude dalle rotte commerciali, paralizzando le sue possibilità di sviluppo che potrebbero oscurare altri centri della provincia leccese e del Mezzogiorno.

L’ostruzionismo leccese
Di Palma punta l’indice contro il Genio Civile del capoluogo di provincia che impedisce lo scavo dei fondali, in quanto non sarebbero stati terminati gli altri lavori di sistemazione del porto. Essendo sempre da sistemare il porto di Taranto, i fondali - denuncia Di Palma - impediscono l’ormeggio di naviglio di modesto tonnellaggio e si  è costretti «a lottare contro resistenze passive le quali portano a gravi perdite di tempo, anche quando, come pel porto, si tratti di gravi questioni che riguardano i maggiori interessi di Taranto! Il Genio civile di Lecce, forse, non vuole ancora convincersi che il più grande centro della provincia di Terra d’Otranto ed uno dei maggiori centri delle Provincie meridionali, specie per la sua eccezionale importanza militare, è precisamente Taranto; bisognerebbe perciò rivolgere a quel porto ed a quella città un po’ più di energia, di buon volere, di solerzia e forse anche di simpatia».

Il porto delle carte
Dopo aver motivato la dettagliata richiesta dei lavori necessari per dotare la città d’un porto commerciale degno di tal nome, così amaramente conclude: «Nelle acque del porto di Taranto, se non galleggiano piroscafi, galleggiano in compenso tonnellate di carte che la burocrazia e gli uffici tecnici hanno preferito regalarci al posto dei fondali, delle banchine e dei binari. La sola risposta oggi possibile dal banco del Governo è, quindi, quella preannunziante l’azione».
Nella sua replica il ministro Ettore Sacchi, barcamenandosi in una risposta interlocutoria, non può non riconoscere che «l’onorevole Di Palma ha con grande competenza trattato dei bisogni del porto di Taranto».

Il plauso della stampa locale
A livello locale, la “Voce del Popolo” di Antonio Rizzo (1857-1920), sempre schierata contro il deputato grottagliese, dà atto a Di Palma d’aver parlato in modo «chiaro ed energicamente … Era quello che il paese voleva, stanco delle vecchie turlupinature. L’on. rappresentante del nostro Collegio merita la più viva lode, specie se continuerà a vigilare e ad alzare la voce, per questa e per altre questioni cittadine».
Sempre la “Voce” condivide i rilievi rivolti all’ufficio del Genio civile di Lecce, perché confermano «quanto altre volte dicemmo noi su questo giornale, modestissimamente ma con pari amore per gl’interessi di Taranto».
Per la “Democrazia” di Lecce di Pietro Marti (1863-1933), Federico Di Palma «tenne uno di quei discorsi, che, per vigore di pensiero e per altezza d’intenti, bastano ad assicurare la fortuna politica di un deputato. È vero che il giovane e già illustre rappresentante del collegio di Taranto non è nuovo a successi parlamentari, specialmente in materia di marina militare e commerciale; ma in questa evenienza si è elevato dal campo del puro tecnicismo, […] prospettando un problema che va meditato e risoluto con tenacia di proposito».
Insomma, Di Palma è il deputato che, con ineguagliabile competenza in materia navale, assumerà importanti incarichi parlamentari e la prestigiosa vicepresidenza del Consiglio superiore della marina mercantile e altre responsabilità avrebbe potuto certamente accettare nel corso degli anni se la malattia contratta al fronte non avesse stroncato la vita.
Taranto riconoscente, con l’amministrazione comunale guidata da Francesco (don Ciccillo) Troilo (1868-1952), darà, ad imperitura memoria, il suo nome alla importante via cittadina che dall’ingresso principale dell’Arsenale militare giunge alla centrale piazza M. Immacolata.

Guglielmo Matichecchia
Società di Storia Patria per la Puglia
Socio Ordinario - Sezione di Taranto


Guglielmo Matichecchia, Di Palma e il porto che non c’è, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 15 aprile 2020, n. 82, p. 12.

sabato 28 marzo 2020

Ricordo di Vincenzo De Filippis


   In questi giorni, il mondo della scuola e quello dell’arte sono in lutto per la scomparsa di Vincenzo De Filippis, preside dell’istituto d’arte di Grottaglie dal 1987 al 1997 e artista di chiara fama.

   Grottaglie perde uno dei suoi figli migliori, un grande uomo di scuola, un eccellente artista, un testimone della migliore grottagliesità.
   Credeva e si impegnava per una scuola di qualità, formativa, innovativa, capace di coniugare la gloriosa tradizione della vecchia scuola d’arte con i nuovi indirizzi legati all’avanzare di forme e linguaggi della contemporaneità.       Per Vincenzo la scuola era il tempio della cultura e dell’arte, dove il vero si incontra con il bello in un’umanità orientata al bene. Organizza, con particolare cura, il museo della ceramica dell’istituto d’arte, un fiore all’occhiello non solo della scuola, dove far tappa con i visitatori più illustri della città delle ceramiche. 
   Come artista, eccelle soprattutto nella scultura, nella ceramica e nella grafica, esponendo in Italia e all’estero in mostre personali e collettive, con vasto consenso di pubblico e di critica. Cosimo Luccarelli ricorda che «sue opere dimostrano l’alto valore artistico, la grande professionalità dei maestri grottagliesi e non per ultimo la provenienza da una scuola d’arte locale di alto prestigio, vanto di tante generazioni».
   Tra i ricordi personali c’è un viaggio insieme a Brest, città francese gemellata con Taranto, per uno scambio culturale che ci vedeva insieme a Pino Albenzio, Franco Fersini, Gianni Amodio, Grazia Lodeserto, Giovanni Gigli, Alfredo Cervellera e altri amici e colleghi. 
   Torna in mente un’indimenticabile serata, nel novembre 2011, nel liceo “Moscati” con Roberto Burano, Alberto Altamura, Francesco Prudenzano, Tommaso Sibillio per presentare un’interpretazione di Dante attraverso le sue stupende sculture (Il titolo della serata era “La scultura di Vincenzo De Filippis interpreta Dante”), collegate alle “Lecturae Dantis” del liceo.   
   Un ultimo ricordo personale è del novembre 2017, legato al conferimento del premio “Koinè Culturale - Giuseppe Battista” di Grottaglie, organizzato da Roberto Burano, con la collaborazione di Rosario Quaranta e di Pierpaolo De Padova, che Vincenzo impreziosiva con le sue opere in terracotta da assegnare al premiato dell’edizione di turno.
   Credo che possano esserci altri momenti in cui si debba meglio ricordare la persona e l’opera di De Filippis. L’auspicio è che la città di Grottaglie, al di là dell’immediato cordoglio e degli onori che non ha potuto tributare in questi giorni di coronavirus, sappia degnamente onorare la sua esemplare opera e la sua degnissima persona.

Guglielmo Matichecchia, De Filippis, uomo di scuola artista eccellente, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 28 marzo 2020, n. 71, p. 10.








martedì 17 marzo 2020

La peste bubbonica nella Taranto del dopoguerra


Il coronavirus fa rivivere dolorose esperienze del passato che si ritenevano improponibili per le migliorate condizioni di vita di oggi e per i progressi della medicina, ritenuta capace di poter debellare ogni virus vecchio o nuovo che voglia minacciare la salute delle popolazioni.
La memoria storica va all'anno 1945, all'indomani della conclusione del conflitto mondiale e della liberazione del'Italia dal fascismo, quando nel mese di settembre esplodono, in Taranto, in prevalenza tra gli operai delle officine dellarsenale marittimo, alcuni casi di peste bubbonica.

Ancora non sopiti leco lacerante delle sirene antiaeree e lacuto sibilo delle bombe, ancora non asciugate le amare lacrime per i tanti morti in una guerra funesta, scatta un nuovo e inatteso allarme in una città che muove i primi passi del post-fascismo per ripristinare valori ed esperienze di libertà e di democrazia.
Il timore dellepidemia mette alla prova la nuova classe dirigente: il socialista Ciro Drago alla guida della giunta municipale, il democristiano Alfredo Fighera alla presidenza dellAmministrazione provinciale e Giuseppe Festa alla responsabilità della prefettura. Lo stesso governo nazionale, presieduto da Ferruccio Parri - che non ha un ministero della Salute, ma quello dellAlimentazione con laventiniano Enrico Molè - segue, con la giusta attenzione, levolversi del focolaio nel territorio tarantino.
Da unimmediata indagine sanitaria, disposta dalle autorità militari e civili ed eseguita dagli esperti dellAlto commissariato per ligiene e la sanità, scaturisce: la presenza di topi portatori della morte nera nelle balle di cotone e di stracci, scaricate da un mercantile inglese proveniente da Malta; la morte dun marinaio dellequipaggio senza dichiarare la causa alle autorità italiane.  Si adottano immediatamente le prime misure durgenza per circoscrivere il focolaio. I contagiati sono confinati nel lazzaretto comunale diretto dal dott. Arturo Gentile, i familiari in contumacia; si dispongono disinfestazioni e vaccinazioni per quanto possibile.
Si vietano le riunioni pubbliche e tutte le manifestazioni, si chiudono le chiese e i luoghi dincontro, si sospende il servizio tranviario. Pur evitando ogni possibile pubblicizzazione, la notizia trapela in città che non resta indifferente. Si respira unaria greve, di comprensibile preoccupazione; le vie non sono particolarmente affollate; si vogliono evitare contatti che possano essere contagiosi e pericolosi per la salute.
Dal 3 al 23 settembre si contano 23 casi, di cui 11 mortali. Si pensa che il peggio sia passato, ma fra il 22 e il 29 ottobre si aggiungono altri 3 casi letali. Nel mese di novembre si registrano due casi, di cui uno mortale, le autorità sanitarie ritengono diminuita la forza diffusiva dellinfezione anche se non ritengono la città ancora indenne. La sanità militare della marina italiana è encomiabile per la competenza e limpegno dei suoi ufficiali - specificatamente Umberto Monteduro, Giuseppe Barbagallo, Alfonso Leone e altri - nel contrasto del morbo, giovandosi della collaborazione degli inglesi. 
Le autorità sanitarie nazionali e locali (con il dott. Ferdinando Martorana, medico provinciale) decidono di organizzare unoffensiva per sterminare i topi, ritenuti il pericolo pubblico numero uno.
Chiamato dallUnited Nations Relief and Rehabilitation Administration (U.N.R.R.A.), unorganizzazione internazionale istituita per assistere economicamente e civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla Seconda guerra mondiale, giunge da Londra il dott. Barnett, uno specialista del Servizio controllo disinfestazioni del ministero dellalimentazione, che vanta, nel suo curriculum, lannientamento in Inghilterra «di qualcosa come otto milioni di topi nel giro di pochi mesi». La lotta contro i ratti è intensificata con un mirato piano studiato dalle autorità sanitarie italiane in accordo con lesperto inglese, che tiene conto della specificità del morbo, della sua diffusione e della situazione igienica del centro abitato. Qui «i rifiuti accumulati nei bidoni generosamente forniti dall'Amministrazione comunale e situati nei vari androni - si denuncia nella Voce - emanano un tanfo insopportabile ed attirano mosche, topi ed insetti in tale quantità da costituire un pericolo per la comunità». Al di là dei topi importati con le balle di cotone e di stracci, si individuano alcune concause nell'eccessivo sovraffollamento della città; nella caldissima estate, seguita ad un inverno freddo e a una primavera ritardata; nella siccità da gennaio ad ottobre, con una durata mai riscontrata nell'ultimo cinquantennio.
Alla cronaca di quei giorni fa qualche cenno lindimenticabile Giacinto Peluso (che fa parte di quella benemerita schiera di studiosi locali, homines virtutis atque ponderis), nella sua Storia di Taranto del 1990, edita dalla Scorpione Editrice di Piero Massafra. Nei primi anni del nuovo Millennio, Giovangualberto Carducci e A. Leone entrano nel merito degli avvenimenti con un saggio pubblicato nella rivista Cenacolo della sezione di Taranto della Società di Storia Patria. A questi si aggiungono articoli di giornali locali e, nel 2002, gli interventi di Alberto Carducci e degli ultranovantenni Barbagallo e Leone, in convegni e incontri di studio sull'argomento.  Non ci sono riscontri, nel 1945, nelle pagine della storica Voce del Popolo, forse per non allarmare ulteriormente la popolazione duramente provata dalla dittatura del ventennio fascista e dalla tragedia della guerra. La cittadinanza conosce, però, i  provvedimenti adottati dal prefetto e, nell'edizione del 27 ottobre del giornale diretto da Antonio Rizzo,  si accenna all'esistenza «dei diversi casi di peste verificatisi di recente nella nostra città», riportando la protesta del lettore Sergio Azzollini, che si rivolge pubblicamente al sindaco - dopo alcuni reclami scritti senza risposta - per chiedere una disinfezione in via Pupino, angolo via Di Palma, dove «si notano da tempo numerosi topi evidentemente di fogna».
 Anche in questo caso, come in ogni emergenza con rischi per la salute e la vita, tutto il resto passa in secondo piano e anche a Taranto, come direbbe Camus, la peste «aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti».
La lezione che viene dalla storia è oggi, a maggior ragione, da non dimenticare: si può vincere o perdere quando si è divisi dalla guerra; si può solamente vincere, senza alcuna paura, quando si è uniti senza distinzioni e si lotta fianco a fianco, dalla stessa parte, per il bene di tutti.


Guglielmo Matichecchia
Società di Storia Patria per la Puglia
Socio Ordinario - Sezione di Taranto


Guglielmo Matichecchia, La peste bubbonica nella Taranto del dopoguerra, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVIII, 17 marzo 2020, n. 62, p. 15.