Il coronavirus fa rivivere dolorose esperienze
del passato che si ritenevano improponibili per le migliorate condizioni di
vita di oggi e per i progressi della medicina, ritenuta capace di poter debellare
ogni virus vecchio o nuovo che voglia minacciare la salute delle popolazioni.
La memoria storica va all'anno 1945, all'indomani
della conclusione del conflitto mondiale e della liberazione del'Italia dal
fascismo, quando nel mese di settembre esplodono, in Taranto, in prevalenza tra
gli operai delle officine dell’arsenale marittimo, alcuni casi di peste
bubbonica.
Ancora non sopiti l’eco lacerante
delle sirene antiaeree e l’acuto sibilo delle bombe, ancora non asciugate le
amare lacrime per i tanti morti in una guerra funesta, scatta un nuovo e
inatteso allarme in una città che muove i primi passi del post-fascismo
per ripristinare valori ed esperienze di libertà e di
democrazia.
Il timore dell’epidemia
mette alla prova la nuova classe dirigente: il socialista Ciro Drago alla guida
della giunta municipale, il democristiano Alfredo Fighera alla presidenza dell’Amministrazione
provinciale e Giuseppe Festa alla responsabilità della
prefettura. Lo stesso governo nazionale, presieduto da Ferruccio Parri - che
non ha un ministero della Salute, ma quello dell’Alimentazione con l’aventiniano Enrico
Molè
- segue, con la giusta attenzione, l’evolversi del focolaio nel territorio
tarantino.
Da un’immediata indagine sanitaria,
disposta dalle autorità militari e civili ed eseguita dagli esperti dell’Alto
commissariato per l’igiene e la sanità, scaturisce:
la presenza di topi portatori della “morte nera” nelle balle
di cotone e di stracci, scaricate da un mercantile inglese proveniente da Malta;
la morte d’un marinaio dell’equipaggio senza
dichiarare la causa alle autorità italiane. Si adottano immediatamente le prime misure d’urgenza per
circoscrivere il focolaio. I contagiati sono confinati nel lazzaretto comunale
diretto dal dott. Arturo Gentile, i familiari in contumacia; si dispongono disinfestazioni
e vaccinazioni per quanto possibile.
Si vietano le riunioni pubbliche e
tutte le manifestazioni, si chiudono le chiese e i luoghi d’incontro, si
sospende il servizio tranviario. Pur evitando ogni possibile pubblicizzazione,
la notizia trapela in città che non resta indifferente. Si
respira un’aria greve,
di comprensibile preoccupazione; le vie non sono particolarmente affollate; si
vogliono evitare contatti che possano essere contagiosi e pericolosi per la
salute.
Dal 3 al 23 settembre si contano 23
casi, di cui 11 mortali. Si pensa che il peggio sia passato, ma fra il 22 e il
29 ottobre si aggiungono altri 3 casi letali. Nel mese di novembre si
registrano due casi, di cui uno mortale, le autorità sanitarie ritengono
diminuita la forza diffusiva dell’infezione anche se non ritengono la
città ancora indenne. La sanità militare
della marina italiana è encomiabile per la competenza e l’impegno dei
suoi ufficiali - specificatamente Umberto Monteduro, Giuseppe Barbagallo,
Alfonso Leone e altri - nel contrasto del morbo, giovandosi della
collaborazione degli inglesi.
Le autorità sanitarie
nazionali e locali (con il dott. Ferdinando Martorana, medico provinciale)
decidono di organizzare un’offensiva per sterminare i
topi, ritenuti il pericolo pubblico numero uno.
Chiamato dall’United
Nations Relief and Rehabilitation Administration (U.N.R.R.A.), un’organizzazione
internazionale istituita per assistere economicamente e
civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla Seconda guerra mondiale,
giunge da Londra il dott. Barnett, uno specialista del Servizio controllo
disinfestazioni del ministero dell’alimentazione, che vanta, nel suo
curriculum, l’annientamento in Inghilterra «di qualcosa
come otto milioni di topi nel giro di pochi mesi». La lotta
contro i ratti è intensificata con un mirato piano studiato dalle
autorità sanitarie italiane in accordo con l’esperto
inglese, che tiene conto della specificità del morbo,
della sua diffusione e della situazione igienica del centro abitato. Qui «i rifiuti
accumulati nei bidoni generosamente forniti dall'Amministrazione
comunale e situati nei vari androni - si denuncia nella “Voce” - emanano un
tanfo insopportabile … ed attirano
mosche, topi ed insetti in tale quantità da
costituire un pericolo per la comunità». Al di là dei topi
importati con le balle di cotone e di stracci, si individuano alcune concause
nell'eccessivo sovraffollamento della città; nella
caldissima estate, seguita ad un inverno freddo e a una primavera ritardata;
nella siccità da gennaio ad ottobre, con una durata mai
riscontrata nell'ultimo
cinquantennio.
Alla cronaca di quei giorni fa qualche
cenno l’indimenticabile
Giacinto Peluso (che fa parte di quella benemerita schiera di studiosi locali,
homines virtutis atque ponderis), nella sua “Storia di Taranto” del 1990,
edita dalla Scorpione Editrice di Piero Massafra. Nei primi anni del nuovo Millennio,
Giovangualberto Carducci e A. Leone entrano nel merito degli avvenimenti con un
saggio pubblicato nella rivista “Cenacolo” della
sezione di Taranto della Società di Storia Patria. A questi si
aggiungono articoli di giornali locali e, nel 2002, gli interventi di Alberto
Carducci e degli ultranovantenni Barbagallo e Leone, in convegni e incontri di
studio sull'argomento. Non ci sono riscontri, nel 1945, nelle pagine della
storica “Voce del
Popolo”, forse per non allarmare ulteriormente la
popolazione duramente provata dalla dittatura del ventennio fascista e dalla
tragedia della guerra. La cittadinanza conosce, però, i provvedimenti adottati dal prefetto e, nell'edizione del
27 ottobre del giornale diretto da Antonio Rizzo, si accenna all'esistenza «dei diversi casi
di peste verificatisi di recente nella nostra città», riportando
la protesta del lettore Sergio Azzollini, che si rivolge pubblicamente al
sindaco - dopo alcuni reclami scritti senza risposta - per chiedere una “disinfezione” in via
Pupino, angolo via Di Palma, dove «si notano da
tempo numerosi topi evidentemente di fogna».
Anche in questo caso, come in ogni emergenza con
rischi per la salute e la vita, tutto il resto passa in secondo piano e anche a
Taranto, come direbbe Camus, la peste «aveva
ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini
individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da
tutti».
La lezione che viene dalla storia è oggi, a
maggior ragione, da non dimenticare: si può vincere o perdere
quando si è divisi dalla guerra; si può solamente vincere,
senza alcuna paura, quando si è uniti senza distinzioni e si
lotta fianco a fianco, dalla stessa parte, per il bene di tutti.
Guglielmo Matichecchia
Società di
Storia Patria per la Puglia
Socio Ordinario
- Sezione di Taranto
Guglielmo Matichecchia, La peste bubbonica nella Taranto del dopoguerra, in “Buonasera
Taranto”, Anno XXVIII, 17 marzo 2020, n. 62, p. 15.
Nessun commento:
Posta un commento