martedì 10 settembre 2019

Colucci, radicale che sposò il fascio


L’immatura scomparsa
Nel penultimo giorno dell’agosto 1929, anche 90 anni fa di venerdì, vinto da un male incurabile, scompare, appena cinquantenne, l’on. Leonida Colucci, fedele interprete dell’ortodossia mussoliniana nella Camera dei deputati e nel fascismo tarantino.
Colucci, prima di essere il parlamentare e il titolare d’un accorsato studio legale, è il tarantino delle cozze,  essendo nato il 25 maggio 1879 nel vico Statte; cresce  e corre tra i vicoli e la marina dei pescatori, tra i signorili palazzi e gli angusti tuguri, tra gli schiamazzi e le grida di un Isola viva, coinvolgente, affollata di suoni, di colori, di odori e di sguardi; conosce bene la sua città, i suoi abitanti; sa stare e intrattenersi con tutti e sa trovare sempre le parole giuste e adeguate con ciascuno.

L’avvocato di successo
Colucci è avvocato di successo. La rivista “L’Eloquenza”, diretta dall’illustre concittadino Antonio Russo, pubblica, nel fascicolo di dicembre 1913, il profilo del giovane legale che porta «una passione, una vita, un impeto, un ardore quale a pochissimi è dato portare». Nelle sue battaglie legali, condotte con «il suo ingegno acuto sottile, si avvale di tutte le risorse per deviare un pericolo, preparare un beneficio, sventare una trama, accattivarsi una simpatia. […] Ma ciò che lo rende più specialmente ammirato è quella sicurezza che egli porta di sé e della sua tesi, anche quando ne avverte tutte le debolezze e la fragilità […] Divide con la folla che lo acclama le soddisfazioni della vittoria e l’ingiustizia - dice lui - della sconfitta».
In una vivace udienza in corte d’assise del 19 marzo 1908, tra la sorpresa degli autorevoli colleghi della controparte (Giovanni Spartera, Edoardo Sangiorgio, Angelo Parabita, Enrico Frascolla, Luigi Scoppetta), rileva e rivela «con parola simpatica e convincente» che uno dei giurati ha un’età maggiore di quella richiesta e non può, sotto pena di nullità, far parte della giuria.  Il magistrato che presiede, Giuseppe Cagnazzi, non può non accogliere la richiesta dell’avv. Colucci e rinviare il processo a nuovo ruolo.  
Il giovane legale, tra l’altro, può vantare una laurea con lode, conseguita il 1902, nella regia università di Napoli, discutendo brillantemente una tesi, in economia politica, “Lo sciopero in Italia”, con relatore Francesco Saverio Nitti.

La scelta radicale
Nello stesso anno, la sua scelta politica è chiara e inequivocabile: no ai liberali dell’“Associazione Democratica” di Vincenzo Damasco e di Camillo Jannelli; no ai liberali della “Pro-Taranto” di Federico Di Palma, di Vincenzo Calò e di Francesco Troilo; no ai socialisti di Edoardo Sangiorgio e di Odoardo Voccoli; sì al partito radicale, alle sue tradizioni mazziniane e garibaldine, repubblicane e anticlericali, dove assume ben presto l’incontrastata leadership.
Il debutto in consiglio comunale è con la tornata elettorale del 4 aprile 1909, con la piccola pattuglia radicale composta da Angelo Liuzzi, dall’avv. Aurelio Marchi e dal dott. Luigi Serio.
Nel 1913, in occasione delle elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati, la ricostruita sezione radicale (Leonida Colucci, presidente; L. Serio, A. Marchi, avv. Luigi Scoppetta, prof. Niccolò Tommaso Portacci e rag. Giuseppe Buono, consiglieri), con il dissenso di Serio, aderisce all’“Unione Popolare Tarantina”, un improvvisato coacervo di forze elettorali a sostegno del candidato radicale e massone Giovanni Albano. Questi ottiene meno della metà dei voti conquistati, nel collegio elettorale, dal vincitore Federico Di Palma.
Il 14 giugno 1914, nelle elezioni amministrative del capoluogo, al di là della vittoria della “Pro-Taranto”, i radicali portano, nei banchi della minoranza, ben 10 eletti, noti professionisti, tutti iniziati alla stretta e fraterna osservanza massonica (L. Colucci, dott. Floriano Dell’Aquila, notaio Giovanni Carano, A. Marchi, avv. Michele Casavola, N.T. Portacci, rag. Francesco Boccuni, prof. Emidio Ursoleo, avv. Giovanni Prete e dott. Matteo Fago).

La svolta politica
Dopo il servizio militare, come ufficiale di artiglieria, durante la Grande Guerra, cui partecipa, rifiutando la dispensa per un’invalidante infermità all’orecchio, riprende l’attività politica nel partito radicale, in un’Italia, profondamente mutata dopo il conflitto mondiale, in cui la crisi economica e sociale arroventa il clima politico e la lotta di classe.
Nelle elezioni comunali del 24 ottobre 1920, vinte dalla coalizione dei vecchi partiti con il sostegno dell’Associazione dei combattenti e dell’Unione commerciale, industriale e agraria, Colucci non presenta la sua candidatura nella lista dei radicali. Per questi è una débâcle e Colucci si adopera per ricostruire la sezione del partito che, a livello nazionale, ha cambiato la denominazione in “Democrazia Sociale” e partecipa al primo governo del nuovo regime. Colucci è il fiduciario provinciale del ridenominato partito. Nel gennaio 1924, nelle cariche della sezione tarantina ci sono: il dott. Giuseppe Mastrocinque, presidente; il notaio Carano, vicepresidente; l’impiegato dell’arsenale M.M., Rodolfo Colizzi, segretario.
Il locale PNF è spaccato al suo interno, con gravi lacerazioni tra la minoranza dei “puri e duri” della prima ora e la maggioranza degli ultimi arrivati, gli stessi della vecchia e inaffondabile classe politica.
Con le elezioni politiche del 6 aprile 1924, le prime del regime fascista, con un sistema elettorale premiante il partito al potere, si ritirano gli onorevoli Francesco Troilo, Giuseppe Grassi e Giovanni Calò. All’avv. Colucci si chiede di lasciare il suo partito e di accettare la tessera e la candidatura del P.N.F. L’immediata risposta affermativa suscita accuse di tradimento e feroci polemiche che lacerano consolidati rapporti politici e umani e ne fanno intrecciare di nuovi. La minoranza e i dissidenti del PNF denunciano le ingerenze massoniche di quanti, in un baleno, si sono impadroniti del partito e che «dopo aver carpito la tessera nel pomeriggio si son fatta costruire la camicia nera alla mezzanotte. […] È cinismo! È mancanza di pudore!». Nicola Pappacena ribatte a difesa del transfuga che «se si volesse fare i puritani in politica, si finirebbe con l’essere solo dei minchioni». Non mancano per Colucci i consensi da parte di colleghi e amici, tra i quali il colto medico grottagliese Ignazio Carrieri invia una cortese lettera di stima e di solidarietà.
La “folgorazione” comporta l’immediata elezione alla Camera dei deputati nella XXVII (24 maggio 1924 - 21 gennaio 1929) e XXVIII legislatura (20 aprile 1929 - 19 gennaio 1934).
Giannino Acquaviva, storico direttore de “Il Corriere del Giorno” annoterà che Colucci «con incredibile faccia tosta, passa dal Partito Radicale alla Democrazia Sociale, ed infine al Fascismo». Con riferimento ad una deprecabile pratica politica, Roberto Nistri vedrà nell’on. Colucci l’esempio di «un trasformismo così eclatante da poter essere reso possibile solo dal marasma continuo che sconvolge il fascismo jonico».
La carriera politica è senza ostacoli. La vita, però, può riservare dolorose sorprese!

L’ispirazione poetica
Dell’umanità di Colucci, infine, non va dimenticata la giovanile “vena” poetica. Nell’anno prima della laurea, pubblica tre sentimentali poesie in lingua italiana (Sogno, Fiore appassito, Trillo d’anima) con l’anagramma Cidone Lucciola.
Nel 1902, con lo pseudonimo Radiche de Scalere, risponde aspramente, con versi in vernacolo, nel corso di una disputa, al più noto poeta dialettale del tempo, Emilio Consiglio alias Cataldo Selaride. Questi, politicamente schierato con l’“Associazione Democratica” al governo della città, è autore d’un canzonatorio sonetto U’ partite radicale per salutare la nuova sezione, fondata da Colucci. La poesia non particolarmente gradita dà luogo a un’inelegante polemica «di una certa risonanza - secondo Pietro Mandrillo - nella modesta Taranto dei primi anni del secolo», consentendo così al Colucci di essere ricordato anche attraverso la vita e il vernacolo del buon Consiglio.


Guglielmo Matichecchia
Società di Storia Patria per la Puglia


(Guglielmo Matichecchia, Colucci, radicale che sposò il fascio, in “Buanasera Taranto”, Anno XXVII, 8-9 settembre 2019, n. 201, p. 12) 





lunedì 9 settembre 2019

1 Settembre 1929 - Si spengono le luci del Teatro Alhambra

L'"Alhambra" con i suoi 2.000 posti
È il primo settembre 1929. Lo spettacolo è finito, tace il proiettore che ha illuminato lo schermo con le immagini d’uno scadente film muto in bianco e nero, si spengono le luci, il silenzio assoluto inonda il vuoto della galleria e dei palchi. All’uscita, il malinconico sguardo dei pochi spettatori saluta mestamente, con il buio d’una luna calante, il politeama “Alhambra” nel suo ultimo e anonimo giorno di vita.
In fondo a via Cavour, non c’è l’aria della scintillante festa di venti anni prima, quando il 28 agosto 1909 si inaugurava pomposamente il nuovo teatro, progettato dall’arch. tarantino Eduardo Russo, con la musica del Cigno di Busseto, con l’artistica rappresentazione dell’Aida, con la partecipazione delle autorità e della buona società d’una città che brindava ai fasti dell’elegante struttura e a una grandezza ritrovata.
Il teatro si fa apprezzare per «il palcoscenico amplissimo, la vasta platea, i quattro ordini di palchi, dei quali i due ultimi danno posto ad una duplice gradinata di sfondo, tutto a dipinture bianco e oro, con figurazioni mitologiche di nudo sulla volta e nel sipario»; è realizzato per l’iniziativa di alcuni giovani di facoltose famiglie tarantine, tra i quali Giuseppe Troilo, fratello del sindaco Francesco, e l’avv. Silvio Di Palma, che prendono in fitto un’area edificabile in fondo a via Cavour e con alle spalle l’azzurro dello Jonio.
Quanti ricordi custodisce questo politeama che si avvia alla demolizione! Sono indimenticabili le serate musicali ben organizzate dai benemeriti de “Gli Amici della Musica”, le esibizioni di Tito Schipa, di Mafalda Favero, di Cettina Bianchi con la rappresentazione di “Scugnizza” di Mario Costa, le onoranze per il primo centenario della morte di Giovanni Paisiello con il M° Francesco Cilea  e il M° Gino Golisciani, i virtuosismi del violoncellista Arturo Bonucci con Armando Fanelli al pianoforte, le tante stagioni liriche e quelle teatrali con un’esaltante interpretazione della grande Emma Grammatica, la messa in scena de “La Nave” di D’Annunzio alla presenza dell’ex ministro e capo di stato maggiore della Marina, amm. Giovanni Bettolo, le belle serate con il tarantino Enzo Tacci, ricercato interprete della melodia napoletana. Venti anni di ricordi e di vita, di gradevoli appuntamenti culturali e di incontri del bel mondo. 
In questi venti anni, l’“Alhambra” ha ospitato la seduta inaugurale del congresso nazionale della Società Dante Alighieri del 1926, un affollato incontro con il barnabita Giovanni Semeria, influente confessore - secondo Renzo De Felice - del gen. Luigi Cadorna, oratore colto e coinvolgente, amico del grottagliese Vincenzo Calò. Il politeama è la sede dei più importanti e partecipati congressi, convegni, manifestazioni politiche e sportive, serate di beneficenza e feste da ballo; è il simbolo e l’anima della città che conta e vuole contare sempre più.
Dopo il primo settembre 1929, con una spesa prevista di 350.000 lire per la sola demolizione, l’“Alhambra” cederà il posto al cantiere per la costruzione del monumentale Palazzo del Governo, dove ospitare la Prefettura e l’Amministrazione provinciale.
La nuova opera, voluta dal regime, è progettata - per indicazione dello stesso Mussolini - dall’arch. Armando Brasini, accademico d’Italia e fautore di un’eclettica megalomania costruttiva.
Per costruire il nuovo Palazzo del Governo, l’Amministrazione
La demolizione del Politeama "Alhambra"
provinciale - con la presidenza di Giuseppe Meta, assistito dal segretario dell’Ente, Michele Rinaldi - acquista, con ragguardevole valore di mercato, il terreno di 8.000 mq e l’adiacente
villa Carducci (costruita nel XVII secolo dall’arcidiacono Francesco Carducci Agustini), entrambi di proprietà del ricchissimo sen. leccese Vincenzo Tamborino, suocero del potente federale del fascismo jonico, il dott. Milziade Magnini, chirurgo, primario nel locale ospedale, docente universitario (deputato dal 28 aprile 1934 al 2 agosto 1943), conosciuto anche come esperto collezionista di terrecotte e di ceramiche di particolare rilievo storico e artistico. L’Amministrazione provinciale corrisponde, altresì, con apposite transazioni, rilevanti indennità a quanti hanno in locazione il terreno del sen. Tamborino: all'avv. Silvio Di Palma per il teatro "Alhambra", ad Angelo Cecinato per le fabbriche e i magazzini esistenti, ai coniugi Stefano Bruno-Strina per i magazzini di mobili, ad Augusto Bosco per il ristorante "Miramare", a Vincenzo D'Aquino per l'esercizio del forno, a Giuseppe Masi per lo studio di scultura. Un buon affare per tutti!
A nulla vale il disappunto ovattato, che non produca ritorsioni da parte del regime, di quanti non condividono la perdita dell'importante ed elegante presidio culturale della città (dove sono pur presenti il "Fusco" inaugurato nel marzo 1907 e l'"Orfeo" aperto al pubblico nel febbraio 1915). L'arch. Arcangelo Speranza chiede, attraverso la "Voce del Popolo", se «sarà mai possibile che la città rimanga senza un Teatro, degno di tal nome e degno dell'importanza cui è giunto questo gran centro».
Da allora - al di là di restauri e ristrutturazioni dei due storici teatri sopravvissuti - la città spera che, a tal proposito, venga riconosciuta la sua dignità culturale, attendendo ancora la giusta risposta!

Guglielmo Matichecchia
Società di Storia Patria per la Puglia

(GUGLIELMO MATICHECCHIA, 1 settembre 1929. Si spengono le luci del Teatro Alhambra, in "Buonasera Taranto", Anno XXVII, 5 settembre 2019, n. 198, p. 17)

A 90 anni dalla scomparsa di Antonio Torro


È l’agosto 1929. Taranto vive, anche quest’anno, la sua lunga e calda estate, dominata dallo scirocco umido e da un sole africano che stenta a penetrare tra i vicoli stretti - strittelicchije - e incastrati dell’antica Isola, dove un assopito dio Eolo sembra aver smarrito ogni sua forza. Si utilizzano tutti gli accorgimenti necessari per difendersi dall’afa soffocante e per trovare un possibile refrigerio. Tra gli stabilimenti balneari, il "Nettuno" di Luigi Cecinato, nel centro abitato, è il più pubblicizzato e via D’Aquino, frequentata nelle passeggiate serali, è il tratto preferito per lo struscio, illuminato dalle vetrine dei negozi e vegliato dalla silente luna.

Nulla lascia presagire un qualsivoglia imprevisto che possa turbare l’uniformità di questi giorni, in cui molte famiglie, come d’abitudine, già pregustano la ferragostana festività per una piacevole scampagnata.

L’orrendo delitto
La notizia, però, si diffonde in un baleno nella città: «Hanno ammazzato Antonio Torro». Sì, proprio lui: il vernacolare poeta e l’appassionato cantore di Taranto, la "voluttuosa" città dalle dilette sponde; il tenace autodidatta che ha saputo costruire tutto il suo sapere; il letterato e il giornalista di buona levatura; il poliglotta e versatile maestro di tante discipline; il fondatore dell’Università Popolare "Alfredo Oriani" e della "Scuola di lingue moderne"; il politico sempre libero nel pensiero, il sindacalista sempre fedele al suo mandato. Torro ha trentotto anni, essendo nato nel 1891, è lo sposo di donna Vittoria Carducci Agustini, l’amata Rondine, che resterà sola, senza speranza e senza risorse, con quattro piccole creature (Fleurie, Daisy, Michele e Maria).
Il deprecabile delitto è del 12 agosto e ha avuto luogo in "Contrada Recupero", nell’agro di Ceglie Messapica (BR), dove il martoriato corpo viene rinvenuto in una profonda scarpata. Al di là della crudeltà dell’omicidio, che sorprende e inorridisce la coscienza dei tarantini, indigna l’identità del colpevole, reo confesso. L’assassino è - impensabilmente, più che insospettabilmente - don Martino Ragusa, un cinquantenne sacerdote martinese, appartenente al clero diocesano. Giustamente e senza alcuna riserva, la "Voce del Popolo" bolla l’ignobile prete come «un delinquente cinico e volgare».

Il poeta senza compromessi
Torro è l’ideale continuatore di Emilio Consiglio (1841-1905), il quale per il primo «resta il poeta dell’anima tarantina per i versi in vernacolo, nel calunniato, perché non conosciuto, vernacolo, d’a vie di mijnze e d’a marine».
Torro non ha una vita facile; figlio di un umile artigiano, rimane orfano del padre a 16 anni; interventista, è riformato per una stenosi cardiaca. Nella sua vita, non c’è l’agiatezza data da beni materiali, non c’è alcuna manna caduta dal cielo.  «La mia ricchezza - scriverà nel suo diario - è nello sforzo di rendere bello il mio cuore e il mio pensiero» e ogni passo in avanti è sempre il frutto di continue e sofferte rinunce, di innumerevoli e logoranti sacrifici personali. Bonae mentis soror est puapertas. Sì! Il genio ha come sorella la povertà, si potrebbe dire con il Petronio del Satyricon
A ciò si aggiungano la severità con se stesso, il rifiuto d’ogni cedimento, infingimento, doppiezza che l’allontanano da compromessi, beghe e da ogni arrivismo politico, riflettendosi, a volte, in qualche tranciante giudizio non gradito a quanti rassomigliano a sepolcri imbiancati. Ne è un esempio il sostenere, in qualche circostanza, che un «paese senza orizzonti morali è Taranto!» anche se nei suoi versi questa è «sciardine di biddezze» o lo scrivere apertis verbis su via D’Aquino: «C'era movimento per le strade: il solito movimento tarantino. È il movimento che non dà segno di vita. Paradosso. Visi pallidi di gente stanca, preoccupata, malata. Si passeggia, trascinandosi quasi. Discorsi stupidi ed esclamazioni a vuoto. Critiche. Calunnie. Diffamazioni. Ingiurie. Si va su e giù per Via D'Aquino per due o tre ore. Chi cerca il fidanzato e chi la fidanzata. Creditori alla pesca dei debitori. Truffatori alla pesca delle vittime. Via D'Aquino nell'ora in cui più ferve il passeggio è una fogna».

La critica del tempo
Le qualità poetiche di Torro sono riconosciute da Alfredo Lucifero Petrosillo (1905-1977), che, come scrive in una giovanile nota dell’agosto 1930, sente nel compianto cantore della lingua dei pittaggi  «la più schietta voce della lirica dialettale», la cui «poesia vivrà, durerà e dirà alle genti venienti che egli è stato il degno cantore della sua forte e laboriosa Terra Jonica, del suo popolo, umile, mite e laborioso».
Petrosillo sa leggere i versi, cogliere i significati autentici, profondi; sa guardare la persona del poeta nella sua umanità più vera, nei suoi sentimenti più sinceri; ritiene che Torro, nel rifiuto d’una certa poesia in cui «si nasconde l’utilitarismo più torbido», trovi le ragioni per cui «si chiuse in un’orbita che a torto si poteva ritenere orgoglio, sprezzante ogni compromesso ed ogni convenienza culturale, e si raccolse tutto sdegnoso del "mondan rumore" in una fierezza aristocratica. […] Nell’intimità orgogliosa della sua arte resisteva come "torre ferma", insensibile ad ogni infingimento». E con Petrosillo, anche a noi, «sembra di vederlo, là, nella sua modesta fucina di idealità, di sogni, di speranze e di chimere, intento, attento a forgiare, a martellare, con il cuore e con il vivo sentimento e nel dialetto materno a lui tanto caro, versi e versi, armoniose quartine, poesie sonanti e concettuose che quasi sempre sapevano di rinunzie, di sacrifici, di pianto ascoso e rare volte di gioia, di letizia».

Alessandro Criscuolo (1850-1938), «il gran signor della favella» nel giudizio di Torro, dedica una delle sue epigrafi per onorare gli ideali e la vita di Torro: Nella Scuola / nelle pubbliche adunate / nella Università popolare / Antonio Torro / combatté e combatte/ alta la battaglia - per l’Ideale / tu sol - pensando - o ideal - sei vero // Solo / fasciato di fede e d’amore / per gli umili / nulla chiedendo ai forti / Antonio Torro / À carezzata la bellezza di un’idea / l’elevamento intellettuale / di quella parte del popolo / che in silenzio lavora // Fu perseguitato ma non vinto / l’anima sua gagliarda / non ebbe pause / tornò / meglio di prima / verso il tormento dello studio / e delle libere concioni. Criscuolo esprime pure altrove l’ammirazione per Torro, per il silenzioso studioso: il bel «Romeo del sogno», che non dorme per scrivere un sonetto in vernacolo, senza essere uno spiantato e inconcludente acchiappanuvole.
A Petrosillo e Criscuolo, si aggiunge Nino Guglielmi con i vivi e personali ricordi sia del politico che dell’amico, il quale «ha sempre avuto qualcosa dell’ingenuo, del bambino, appunto perché vero poeta. E parrebbe impossibile che le lotte e le sofferenze, gl’inganni e le ipocrisie con le quali la vita e gli uomini cercarono di avvincere e di abbattere la figura di Antonio Torro non siano minimamente valse a far mutare il suo animo materiato di bontà e di fede».

Un’eredità attuale
Il Torro migliore non è nelle discutibili scelte politiche; è quello che ama guardare «la vita con le rosee lenti della poesia», con i suoi versi, con quel vernacolo in cui rifugiarsi e ritrovare se stesso, c'u spiule, con il desiderio di trovare l’anima più vera della città, de sta riggine de le dò mare, dove un popolo, fiero delle sue radici e delle sue tradizioni, non può lasciare ad altri la scelta del suo destino.
Più tardi, nel 1958, sarà il clericus vagans della cultura tarantina, Piero Mandrillo (1917-1989), a riconoscere - nel verismo di denuncia, nel realismo socialmente critico, nella poesia implicitamente problematica del Torro - le sue qualità migliori e «in una prospettiva aperta, in un bilancio intelligente del Novecento poetico minore il posto di Antonio Torro - annota Mandrillo - è ben definito. È un posto […] che egli si è conquistato colla sua opera, […], attuale oggi che sono trascorsi quasi trent’anni dalla sua tragica e veramente ingiusta fine».
Sì. Attuale, ancora oggi, che sono trascorsi 90 anni e la Taranto, che vuol "rinascere", non può dimenticare!

Guglielmo Matichecchia
Socio Ordinario
Società di Storia Patria per la Puglia


(Guglielmo Matichecchia, L'orrendo delitto di Antonio Torro, I parte, in "Buonasera Taranto", Anno XXVII, 10 agosto 2019, n. 182, p. 23)
(Guglielmo MatichecchiaTorro, degno cantore della sua terra, II parte, in "Buonasera Taranto", Anno XXVII, 11 agosto 2019, n. 183, p. 17)

mercoledì 7 agosto 2019

Rochira, leone del foro e della politica


Oggi, in una società che consuma e dimentica rapidamente, s’avverte più che mai bisogno di odorare il buon profumo del passato per apprezzare il giusto valore del presente. 
Per non cadere nello smemoramento e nell’oblio con cui rimuovere le storie della storia di Taranto, anche una vecchia foto, in bianco e nero, aiuta a ritornare a 90 anni fa per riannodare, nella mente e nel cuore, ricordi che vanno al di là di quell’afoso agosto, riscaldato in un cielo certamente più azzurro rispetto a quello della nostra meno luminosa estate.
Il fascismo è al potere in Italia e tende a consolidarsi pure con il consenso del Vaticano, dopo i patti dell’11 febbraio 1929, sedando ogni residua opposizione con il manganello e con i tribunali speciali.
Le elezioni politiche del 24 marzo dello stesso anno hanno visto il conferimento della medaglietta d’oro a tre deputati tarantini: l’avv. Leonardo Mandragora, l’industriale Gianfranco Tosi e l’avv. Leonida Colucci.
Nell’agosto del Gioiello dello Jonio - come Miriam Pierri, con alcuni bellissimi versi, definisce la nostra “alma terra natia” - il sui generis col. Enrico Grassi è il prefetto (1.7.1929-15.9.1929), l’avv. Giuseppe Turi (28.4.1929-5.1.1939) è il preside dell’Amministrazione provinciale e l’avv.  Giovanni Spartera è il podestà del capoluogo (16.2.1926-9.4.1930).

La scomparsa dell’on. Francesco Rochira
Nei primi giorni, precisamente sabato 3 agosto, la città partecipa, con sentimenti di mesto cordoglio, alla scomparsa dell’on. avv. Francesco Rochira (Fragagnano 1844 - Taranto1929), uno dei vecchi leoni del foro e della politica tarantina, il gran patriarca d’una delle famiglie più in vista e tra le più facoltose della città. L’avv. Rochira lascia inconsolati la moglie Amalia De Maria, i figli Elena, Vittorio, Giulio, Cesare, Alberto, Ubaldo. In quest’ultimi, l’avv. Enrico Frascolla - intervenuto a nome della Commissione reale e degli avvocati e procuratori, con una delle più toccanti orazioni funebri al termine delle esequie - vede un’inestimabile collana di perle e la discendenza profumata di virtù, essendo tutti apprezzati professionisti, nel solco degli ammirevoli ammaestramenti paterni.
Della morte dell’on. Rochira scrivono, tra gli altri, Il “Corriere della Sera”, “Il Giornale d’Italia”, “La Gazzetta del Mezzogiorno” e tutta la stampa locale. La “Voce del Popolo” di Giuseppe Rizzo parla della scomparsa di «un maestro di sapere, di bontà e di rettitudine».

Gli anni dell’esperienza politica
Francesco Rochira è stato deputato per il collegio di Manduria, nella Camera dei deputati, dal 30 novembre 1904 al 29 settembre 1913, nelle XXII e XXIII legislature del regno d’Italia.  Nell’ultima esperienza parlamentare, si è trovato con il collega e amico on. Federico Di Palma (17.1.1869-13.4.1916), eletto nel collegio di Taranto. Di Rochira si ricordano le positive esperienze di consigliere e di assessore comunale in numerose consiliature del capoluogo; la presidenza del consiglio dell’ordine degli avvocati; le ripetute elezioni nel consiglio della provincia di Lecce (comprendente le attuali province di Brindisi e di Taranto), dove a lungo è stimato presidente e dove, in qualche consiliatura, trova la presenza del figlio Vittorio, eletto in altro mandamento.   

La “Voce del Popolo” onora il galantuomo della politica
Nel 1913, nonostante le insistenti sollecitazioni, aveva deciso di non ripresentare la candidatura alla Camera dei deputati, lasciando subentrare, con successo, Giuseppe Grassi.
La “Voce del Popolo”, in tale circostanza, aveva reso merito al «galantuomo di spiccata personalità, che sapeva intendere ed assolvere l’alto mandato affidatogli con decoro, con dignità, con rettitudine, pari alla schietta bontà del suo animo e alla saldezza e integrità del suo carattere».
A distanza d’un anno dal ritiro dalla vita politica, nel giugno del 1914, la “Voce del Popolo” ribadirà che «l’on. Rochira appartiene a quella schiera - purtroppo esigua - di uomini retti, dal carattere integro e dall’intelletto illuminato, che onorano le cariche pubbliche e accrescono decoro al proprio paese».

La festa per il giubileo professionale
È giusto ricordare anche la bella festa, quasi dieci anni prima della sua morte, nella domenica del 21 dicembre 1919, per il giubileo professionale con cui si intendono onorare i suoi 52 anni di attività forense. La cronaca del tempo parla della calorosa presenza di quasi tutti gli avvocati del foro di Taranto intorno al valoroso avvocato «che ha dato alla professione il suo cuore generoso e la sua alta mente, la sua energia fattiva e il suo carattere adamantino». I Consigli professionali (quello dell’Ordine, presieduto dall’avv. Alessandro Criscuolo, e quello di disciplina dei procuratori, presieduto dall’avv. Egidio Carelli) consegnano un’artistica pergamena, squisita fattura dell’artista N. Gigante, con un’epigrafe del solito Criscuolo: «A Francesco Antonio Rochira / Nel giubileo professionale / la Curia dice: / Dignità di toga / virtù di lavoro / nobiltà di studii / rettitudine di vita / Te fecero Maestro. / Per il lustro che mi desti / offro / con augurale animo / che Tu sia / in lungo ordine d’anni / decano venerando».
La pergamena mostra in calce, con caratteri non facilmente leggibili per la ridotta misura, una bella dedica, aggiunta dal Gigante: «Taranto non tanto per le sue naturali bellezze deve andare meritatamente superba e fastosa, ma per il numero di illustri cittadini i quali - poeti, musicisti, scienziati, filosofi, medici, giuristi insigni - tutti furono animo e pensiero, vita e luce della patria loro».  
Francesco Rochira è certamente, in quel numero. È tra loro!
Cosi, al termine di novanta anni fa, andava Taranto, con altre storie di uomini e con altre speranze!
Guglielmo Matichecchia
Socio Ordinario
Società di Storia Patria per la Puglia

(Guglielmo Matichecchia, Rochira, leone del foro e della politica, in “Buonasera Taranto”, Anno XXVII, 3 agosto 2019, n. 176, p. 10)


giovedì 11 gennaio 2018

PREMIO KOINE' 2017 A GUGLIELMO MATICHECCHIA

L'invito al concerto e al conferimento del premio
"Il premio si dà, 
non a compenso di fatica, 
ma a ricognizione di merito"
(Niccolò Tommaseo)

Nella serata del 20 novembre 2017, organizzata dall’Associazione Koinè culturale Giuseppe Battista e dal locale Lions Club, ha avuto luogo, nella chiesa “San Francesco di Paola” dell’Ordine dei Minimi di Grottaglie, il conferimento del premio Koinè 2017 a Guglielmo Matichecchia per l’impegno educativo, culturale e sociale.
Guglielmo Matichecchia
Nelle precedenti edizioni, il premio è stato assegnato all’on. Alfredo Mantovano, politico e magistrato salentino, a don Cosimo Occhibianco, glottologo e scrittore grottagliese, a Raffaele Nigro, scrittore e giornalista televisivo, a mons. Salvatore Ligorio, arcivescovo di Potenza.
La manifestazione ha avuto inizio con il saluto della rappresentante dell’Amministrazione comunale di Grottaglie, l’ass. Marianna Annicchiarico. Sono seguiti gli interventi del dott. Roberto Burano Spagnulo, presidente dell’Associazione culturale, del prof. Pierpaolo De Padova, presidente del Lions Club di Grottaglie.
Dopo aver apprezzato, nel clima delle tradizioni natalizie, l’esecuzione di brani di musica classica e moderna da parte del soprano Roberta Pagano, accompagnata dal pianista Giuseppe Riccio, il prof. Rosario Quaranta, già dirigente scolastico della scuola secondaria di primo grado “G. Pignatelli” di Grottaglie e segretario della Sezione di Taranto della Società di Storia Patria, ha illustrato le motivazioni adottate per il conferimento del premio. Il prof. Vincenzo De Filippis, rinomato artista e già dirigente scolastico dell’istituto d’Arte “Vincenzo Calò” di Grottaglie, autore di una pregevole terracotta consegnata al premiato, ha evidenziato le caratteristiche artistiche dell’opera realizzata.
La lieta serata ha avuto termine con il sentito ringraziamento del premiato.

LA MOTIVAZIONE DEL PREMIO
“Nel suo più che quarantennale ed esemplare servizio svolto nella Scuola Italiana e, in particolare negli anni scolastici 2004 - 2013, come indimenticabile Dirigente Scolastico del Liceo Classico e Scientifico “G. Moscati” di Grottaglie, il dott. prof. Guglielmo Matichecchia si è distinto per le elevate qualità intellettuali e morali, la profonda cultura e l’alto senso dello Stato.
La pergamena con la motivazione del premio
Ha sempre svolto ogni incarico che gli è stato affidato, con scrupolosa cura, comprovata competenza, alta professionalità, singolare abnegazione, eccezionali doti umane e manageriali, spiccato senso di responsabilità.
Ha fatto del suo lavoro e della sua vita un apostolato al servizio della Scuola Italiana e, in particolare, del territorio, delle famiglie e degli alunni. A favore di questi ultimi, tra non poche difficoltà, si è prodigato, insieme ai docenti e al personale scolastico, per offrire una formazione umana e culturale di riconosciuta qualità, favorendo fattivamente il loro inserimento - da uomini e da cittadini - nella società civile e nel mondo del lavoro. Ha fatto apprezzare il liceo “Moscati”, anche in virtù dei nuovi indirizzi di studio di cui è stato arricchito e della proficua integrazione tra attività curricolari ed extracurricolari, quale polo formativo di eccellenza, in ambito locale, regionale e nazionale.
Ha sempre operato, con previdente lungimiranza,  in coerenza con l’idea della scuola dell’innovazione, al pieno servizio della persona e della comunità, convinto della necessità di un sistema formativo integrato in cui in cui la scuola, la famiglia, gli enti locali, il mondo dell’associazionismo e del volontariato contribuiscono, con pari dignità e con le rispettive competenze, alla realizzazione d’un condiviso progetto educativo in grado di valorizzare, con una molteplicità di linguaggi non sclerotizzati, le grandi potenzialità dei giovani di oggi. Ha contribuito e contribuisce ancora concretamente - con studi, ricerche e apprezzate pubblicazioni di storia locale sulla città di Grottaglie - a promuovere l’amore per la cultura e per la vita. 
Un riconoscimento, quindi, al dott. prof. Guglielmo Matichecchia, per la sua vita che onora la scuola, la cultura, la comunità di Grottaglie, dove la sua esperienza professionale e umana rimane prezioso riferimento per costruire una scuola e una società sempre migliori”.




Nella foto da sinistra: Pierpaolo De Padova, Vincenzo De Filippis, Giuseppe Riccio, Guglielmo Matichecchia, Roberta Pagano, Marianna Annicchiarico, Roberto Burano Spagnulo, Rosario Quaranta.

lunedì 29 maggio 2017

Sentimenti e ricordi
in un viaggio d'amore

Prefazione alla silloge di poesie e di racconti, Viaggio..., di Rocco Pipino


Chi ha viaggiato conosce molte cose,
chi ha molta esperienza parlerà con intelligenza.
….
chi ha viaggiato ha accresciuto l’accortezza.
Ho visto molte cose nei miei viaggi;
il mio sapere è più che le mie parole.
(Sir. 34.9-11) 

Rocco Pipino adotta la metafora del viaggio per proporre la sua bella raccolta di poesie e di racconti. Non è il viaggio della baudelairiana evasione dall’io, né il viaggio freudiano alla ricerca delle pulsioni dell’inconscio, né il viaggio ermetico dell’io ungarettiano, né il carroliano viaggio immaginario in un tempo e in uno spazio deformati, né l’allegorico viaggio gulliveriano, né il viaggio dello sventurato esule che non toccherà più le sacre sponde della patria, né dell’eroe omerico alla conquista dell’ignoto, né del nomade in balia del viaggio, né…
È il viaggio della vita, «sequenza di gioie e di dolori», attraverso anni intensamente vissuti, profonde riflessioni, sentimenti caldi e profondi, con una cristallina sensibilità illuminata dai perenni valori della migliore umanità di sempre.
È il Viaggio… nei sentimenti e nei ricordi, l’itinerario del cuore e della mente da percorrere sulle gambe vigorose della poesia e della prosa biografica, privilegiando la prima per percorrere più speditamente gli intimi sentieri, documentare le profonde emozioni e «cantar l’inno alla vita».  Sono poesie e racconti custoditi nel diario di bordo del personale "viaggio" da «un agreste borgo di Basilicata» alla città bimare di Taranto. Non prevale il desiderio del ritorno nostalgico, il rimpianto di un passato da rincorrere; si può apprezzare l’"accortezza" dell’esperienza accumulata, degli affetti vissuti, dei pensieri di vita da affidare alla memoria, al cuore e alla cura delle persone più care, tra le quali, soprattutto, i diletti nipoti Alessia, Angelo Paolo e Gaia.
Rocco Pipino sa che i beni materiali non sono duraturi quanto i sentimenti e, attraverso i suoi versi e i suoi racconti, intende consegnare a chi lo seguirà nella vita «il lascito dell’animo mio», affinché «resti per il futuro in testimonianza perenne» (Is, 30.8).  In quel lascito è evidente che Rocco vuole sconfiggere e andare oltre il limite del tempo, continuare il viaggio, realizzare «il sogno della continuità dell’esistenza», restare vivo per sempre attraverso la poesia, il linguaggio della bellezza, il più delicato e più resistente ad ogni usura e chiusura. 
Pipino ricerca, attraverso il suo accorato poetare pensante, il paesaggio dell’essere, il calore e il colore dell’espressione, del suono, del contenuto, per l’immediatezza dei sentimenti che si amplificano in virtù della parola cesellata nella scioltezza del verso.
La famiglia è l’orizzonte della vita e della poesia di Rocco Pipino; è un valore sacro, la mazziniana "patria del cuore", il pilastro su cui costruire l’esistenza, il santuario della vita, la comunità dell’amore più grande, il prezioso patrimonio degli affetti, la porta dell’apertura al prossimo e al bene comune, «è cammino di generazioni che  - come ha affermato Papa Francesco nel suo messaggio di saluto ai partecipanti alla 47a settimana sociale dei cattolici - si trasmettono la fede insieme con i valori morali fondamentali».
Nella famiglia e in questo Viaggio… c’è l’amore del devoto marito, dell’affettuoso padre di Carmela, Teresa, Valeria e dell’amorevole nonno. Una delle sue prime poesie, infatti, è Penso a voi, dedicata ai nipoti, «creature della prole mia», in cui confessa che «istante non trascorre / che la mente / non rivolge a voi / il suo pensiero». Pensiero che, direbbe Kahil Gibran, è la pietra d’inciampo della poesia del nostro autore, il quale dà voce al suo cuore con la bellezza della parola che emoziona, commuove, vibra, intenerisce, fissa momenti e sentimenti in un tempo che sa coniugare la memoria e la speranza.
Nei versi composti «per diletto», quasi tutti pubblicati nel "Corriere del Giorno", si celebrano la nascita, l’onomastico, i compleanni, il battesimo, la prima comunione, la cresima dei nipoti, la rinnovata proclamazione d’amore verso la moglie Rosa, accanto alla quale «notti e dì passai, / remando insieme / contro i marosi della vita», il dolce ricordo dei genitori dediti «alla sudata / fatica della sacra terra», della madre Maria Carmela in cui ancora «rifugio certo trovo», del fratello Domenico prematuramente scomparso. Alle imperdibili "pillole" in cui racchiude la sua vita, Rocco Pipino aggiunge brevi e commoventi passaggi sugli anni vissuti nell’amara terra di Pisticci, nella natale casa "cannizzata", facendo tesoro di tracce di storia orale, retaggio della povera società contadina senza scrittura, di cui è protagonista il genitore Vincenzo, soprannominato dai compaesani "il maggiore" per i gradi di caporal maggiore meritati durante il servizio militare. Il padre racconta l’incontro con il fratello nella trincea accanto durante la prima guerra mondiale e come, nello stesso conflitto, abbia visto spirare tra le sue braccia il comandante del suo plotone e come abbia imparato a leggere, scrivere e far di conto, realizzando il sogno di vincere l’emarginante analfabetismo.
La famiglia di Pipino include lo spazio del consorzio umano, a cui l’autore propone il suo «anelito di pace», «che apre il cuore e la mente / alla speranza dell’umana gente», affidando ai giovani il compito di  «liberar l’Italica terra / dalle sue piaghe / e dalle mille contraddizioni», sentendo il bisogno di accogliere i fratelli immigrati e di tenere presente l’alto Magistero e il carisma di Giovanni Paolo II insieme alla caritatevole spiritualità di Madre Teresa di Calcutta.
L’autore dedica una poesia (Incontro) e due racconti (Frammento di vita in terra jonica e Incontro con gli ex alunni) alla sua lunga e onorata attività professionale di maestro nella scuola elementare. Chi conosce bene Rocco Pipino sa che non c’è alcuna dicotomia tra il docente e il genitore, perché egli sa ben coniugare e testimoniare saggiamente la responsabilità e l’amore di chi è maestro nella famiglia e padre nella scuola.
Le poesie e i racconti non sono un ventaglio di sentimenti sparsi e di ricordi confusi; vanno considerati, nel loro insieme, come una visione di ampio respiro della famiglia, del mondo, della universale fraternità, che non è necessariamente da trovare in enciclopedici trattati specialistici, ma più semplicemente, come nel nostro caso, nel fiore della poesia, della parola che dà luce e calore.
Sono poesie e racconti che vanno oltre i confini in cui sono nati per consentire a tutti di incontrarsi e di riconoscersi, con l’"accortezza" di parole di vita, in una umanità più bella e più grande.

Federico Di Palma. La Patria e il Mare:
un commento di Vittorio De Marco

Vittorio De Marco
Vittorio De Marco, ordinario di Storia Contemporanea dell'Università del Salento di Lecce, curatore della Prefazione del saggio su Federico Di Palma, ha svolto la seguente relazione il 9 febbraio 2017, nel corso della presentazione del volume nella sala consiliare del Comune di San Giorgio Jonico.

Le mie riflessioni su questo lavoro di Guglielmo Matichecchia le ho esternate, per così dire, nella prefazione, a cui rimando per quella che è la mia visione generale del libro. Ho avuto la possibilità di seguire per diversi tratti questa ricerca del preside Matichecchia, dell’amico Guglielmo; me ne fece subito partecipe, distraendo la sua attenzione, momentaneamente, da un’altra ricerca che aveva in corso, non meno interessante, anche se di taglio socio-antropologico e legata anche alla “storia della mentalità” oltre che del costume, di cui però non anticipo nulla.
Ci siamo incontrati diverse volte, mi ha fatto leggere i diversi passaggi dell’opera, man mano che questa prendeva corpo; abbiamo discusso di alcuni aspetti, ed ho potuto sempre rilevare la particolare passione e competenza con le quali ha ricostruito la figura del giornalista, del politico, del parlamentare.
Il filone biografico nell'armamentario metodologico di uno storico è uno dei più complessi, perché l’oggetto della ricerca non riguarda un singolo avvenimento; la biografia dovendosi stendere nel lungo periodo, implica continuamente la necessità di contestualizzare le azioni del personaggio, cogliendo aspetti e tensioni di carattere generale che emergono nel tempo sia a livello locale che nazionale e, in questo nostro caso, anche europeo. È sostanzialmente sulla contestualizzazione che si misura la bravura e la capacità metodologica, riflessiva e operativa, direi, di chi si cimenta in un lavoro biografico.
E nell'alveo delle biografie, quelle di carattere politico, risultano essere in genere più complesse di quelle di altro carattere – letterario, religioso, artistico – perché l’agguato ideologico è sempre dietro l’angolo. Quanti lavori biografici sono stati sciupati perché l’autore si è completamente appiattito sul dato ideologico e partendo da quello ha ricostruito la vita del personaggio e il contesto relativo, tutto piegando  e tutto interpretando da un punto di vista ideologico; vi è un vero e  proprio cimitero di queste biografie, soprattutto in Italia dove gli aspetti ideologici, in particolare nel secondo dopoguerra, sono stati forti e condizionanti l’attività scientifica di molti storici.
Le biografie, poi, se ben strutturate e contestualizzate, diventano a loro volta collettori di notizie, sedi di nodi problematici della storia che si riflettono nel personaggio e intorno al personaggio oggetto di studio e quindi nello stesso tempo, aprono altre prospettive di ricerca per se stessi ma soprattutto per altri ricercatori, sollecitano nuove interpretazioni di passaggi nodali della storia locale e nazionale, spingono ad aprire nuovi sentieri di approfondimento; in altre parole spingono la ricerca storica in avanti, arricchiscono le problematiche storiografiche, diventano punti di riferimento, modelli interpretativi e metodologici di cui si deve tener conto.
Bene, mi sembra che in questo denso lavoro biografico del preside Matichecchia su Federico di Palma siano presenti gli aspetti positivi che ho prima abbozzato, perché offre diversi spunti e sollecitazioni:
 a) innanzitutto una di carattere generale, che ho già sottolineato nella prefazione: ci troviamo di fronte ad un modello metodologico utile per chi volesse approfondire le biografie politiche di altri deputati e senatori della provincia, proprio per il respiro nazionale che questa biografia offre non chiudendo il personaggio nell'angusta o più che angusta, direi insufficiente cornice locale. E credo che sia la prima esauriente biografia di un politico del nostro territorio; anche per alcuni altri ci sono accenni, veloci profili nei repertori biografici, ma manca quella costruzione strutturale, se così posso dire, che il preside Matichecchia ha offerto con questo libro su Federico Di Palma.
 b) la lettura di questo libro e le vicende elettorali di cui Di Palma fu protagonista e coprotagonista dal 1901 al 1913, dovrebbe spingere ad approfondire con una specifica ricerca quello che è stato negli anni giolittiani il comportamento elettorale nei vari collegi del Salento, perché un’analitica ricerca sul comportamento elettorale offrirebbe nuove chiavi di lettura delle vicende politiche e amministrative del territorio nel  passaggio tra Ottocento e Novecento, in quella più generale fase di stabilizzazione socio-politica della giovane Italia liberale postunitaria; un lavoro sul comportamento elettorale che potrebbe essere poi proiettato anche sul secondo dopoguerra;
c) altra pista di approfondimento che sollecita questa biografia riguarda le condizioni economiche generali del territorio con le relative urgenze ed emergenze – e Di Palma di questi aspetti economici ne parla molto e come giornalista e come parlamentare – con nuovi dati più specifici e aggiornati sul mondo dell’agricoltura locale e su quelle che potevano apparire allora piccole parvenze di realtà industriali, magari solo di trasformazione, lasciando da parte arsenale e futuri cantieri navali perché realtà importate. Un approfondimento delle capacità o meno del territorio di esprimere una economia seppure agricola che potesse avere in sé autonome potenzialità di sviluppo; statistiche precise attraverso i repertori di allora e di pari passo un approfondimento sulla realtà della cooperazione che a Taranto e nel circondario muove i primi passi proprio nell'ultimo ventennio dell’Ottocento, con timide espansioni numeriche fino allo scoppio della prima guerra mondiale e dove molto materiale documentario si può trovare nell'archivio della cancelleria del tribunale di Taranto;
d) la ricerca del preside Matichecchia spinge anche ad una rilettura aggiornata del complesso rapporto tra la marina militare e il territorio, ma soprattutto sollecita un approfondimento dell’attività di carattere mercantile di quei decenni, anche qui aiutati dalle statistiche del ministero dell’industria e di quello della marina militare e mercantile del tempo, arrivando anche alle soglie del secondo dopoguerra. Da questo punto di vista il lettore si renderà conto della passione e competenza con le quali Di Palma giornalista prima e deputato poi, affronta i problemi legati alla marina militare, al potenziamento dell’arsenale, che a Taranto è la massima espressione di questa presenza dello Stato attraverso la marina, ma anche l’attenzione che pone alla marina mercantile; se c’è una storia militare di Taranto già scritta negli anni Trenta, manca una storia del commercio di/a Taranto, un commercio più solido  che doveva passare proprio attraverso un potenziamento della marina mercantile;
e) questo libro spinge anche a riflettere non poco sul rapporto giornali-territorio, per tutti i condizionamenti che già allora la carta stampata riusciva a determinare sui giochi politici nelle elezioni amministrative e politiche; non possiamo più fermarci a quella ricerca di Giovanni Acquaviva, benemerita allora ma ormai insufficiente da un punto di vista metodologico, della storia dei giornali a Taranto  (“Un secolo di giornali a Taranto”) pubblicata nel 1982. Proprio questa biografia di Matichecchia su Di Palma, stimola ad esaminare più a fondo quest’altro aspetto della nostra storia patria in quel denso periodo di lotte e passioni elettorali che coincidono con l’avventura politica di Di Palma nell'età giolittiana,  dove non è solo la Voce del Popolo – che pure ha una parte preponderante – a giocare un ruolo di freno o di affermazioni di personaggi politici o ad influenzarne le scelte elettorali; c’è tutto un brulichio di fogli periodici in tutto il Salento che hanno bisogno di uno studio analitico per meglio comprendere le dinamiche politiche ed elettorali del tempo, gli argomenti più trattati, le problematiche affrontate, prima che il fascismo appiattisca tutto in una sorta di monotonia concettuale;
f) questo libro, ancora, sollecita ad indagare sul rapporto tra  poteri nazionali e locali che condizionano la vita del circondario riprendendo in mano le relazioni dei prefetti di Lecce e della sottoprefettura di Taranto, i personaggi che si sono avvicendati in quei posti, i rapporti con la vicina ingombrante provincia di Bari, per cercare di meglio capire ciò che alla fine, ci spettava dallo Stato e magari non ci fu dato, quello che potevamo ottenere con le forze politiche in campo, quello che si riusciva a esprimere come forza contrattuale nei confronti di Lecce e di Bari;  il libro ci dice tra l’altro come Federico Di Palma su tutti questi aspetti cercò di aprire dei varchi e di sensibilizzare l’opinione pubblica locale e i poteri romani;
g) questo libro spinge a riflettere sul peso politico del mondo cattolico nelle competizioni elettorali amministrative e soprattutto politiche del 1909 e del 1913, dove di Palma ha la sua parte, qui esaustivamente illustrata, ma dove bisogna tenere conto che diverse realtà locali, esprimevano preti e laici cattolici di un certo livello che si esponevano ben oltre le proibizioni dei vescovi e della stessa Santa Sede, e che impigliati negli equilibri familiari e nelle simpatie politiche che queste famiglie della borghesia esprimevano nei confronti del notabilato locale, votavano e facevano votare alle elezioni politiche anche prima che Roma allentasse la proibizione di partecipare alle elezioni negli appuntamenti elettorali del 1904, 1909 e soprattutto 1913; c’è stata in sostanza una disobbedienza canonica diffusa e recidiva, perché gli stessi preti che poi chiedevano alla Penitenzieria apostolica il condono della pena canonica per essere andati a votare tornavano a farlo nelle successive competizioni; ci sono tracce vistose sia negli archivi ecclesiastici locali sia nell'Archivio Segreto Vaticano come io stesso anni fa ho direttamente sperimentato;
h) e ancora questo libro sollecita un approfondimento di tutti gli aspetti economici, politici, sociali e antropologici legati alla prima guerra mondiale sul nostro territorio anche perché siamo ancora immersi nel lungo centenario della grande guerra.
 Ecco, questo è un potenziale spettro di ricerche che il lavoro del preside Matichecchia suggerisce e non è poco; con questo libro ha scritto, come ho sottolineato nella prefazione, una pagina intensa della storia di Taranto e del suo circondario tra Otto e Novecento.
Sulla vicenda personale di Di Palma vorrei brevissimamente mettere in evidenza tre aspetti: 1) la sua comprensione della geopolitica del tempo; 2) la capacità di leggere le emergenze del territorio; 3) alcuni progetti “ardimentosi”.
Nell'agone politico internazionale l’attenzione del Di Palma si appuntò sull'alleanza tra Roma e Vienna e Berlino, sulla Triplice Alleanza che se quando fu stipulata, nel 1882, in qualche modo risultava essere utile all'Italia per immettersi con più sicurezza e prestigio nel circuito internazionale e per liberarsi al contempo di una certa tutela e atteggiamento paternalistico della Francai nei suoi confronti, agli inizi del ‘900, con alleanze che si cucivano e scucivano, con un imperialismo diffuso che scombinava continuamente gli equilibri europei, balcanici, dell’Africa settentrionale e relative colonie e protettorati, per di Palma, quella alleanza risultava essere più pericolosa che utile all'Italia.
Egli pur essendo un deputato filogovernativo, la critica dai banchi parlamentari, senza tanti veli e schermi diplomatici, soprattutto a partire dal 1909. Era convinto che nell'Adriatico si doveva prima o poi definire e consumare quella rivalità secolare, che la reciproca riserva mentale era alimentata dalla reciproca cultura del sospetto, che vi era una ostilità carsica che il manto dell’alleanza non aveva certo sopito né risolto, anche perché i confini orientali italiani non erano affatto del tutto definiti.
Nel suo modo di vedere e valutare le cose era chiaro che l’alleanza con l’Austria-Ungheria si stava svuotando di contenuti e l‘opinione pubblica italiana sarebbe stata pronta anche nel 1911 ad uno sganciamento indolore dalla Triplice Alleanza, che gli equilibri geopolitici allontanavano sempre più le due nazioni da eventuali mire convergenti.
Se si fosse salvato il suo archivio forse avremmo capito meglio se questo suo atteggiamento critico verso il formale alleato dell’Italia era una sua solitaria presa di posizione, ovvero questa era stata in qualche modo concertata col governo, se cioè Di Palma e qualcun altro deputato erano stati mandati in avanscoperta per saggiare la reazione dell’Austria di fronte ad un eventuale sganciamento dell’Italia da quella alleanza.
Io penso che siamo in questa seconda ipotesi e forse un sondaggio, non certo facile, nell'archivio del ministero degli esteri o nelle carte Giolitti potrebbe fornirci una qualche risposta ovvero, sarebbe interessante consultare l’archivio del ministero degli esteri di Vienna per capire se l’ambasciatore austriaco in Italia tra il 1909 e il 1911 commentò o meno queste affermazioni che provenivano dai banchi del parlamento italiano. Anche da questo punto di vista, il libro su Di Palma sollecita un’altra interessante pista di ricerca e di approfondimento.
 L’altro aspetto che si può sottolineare è la sua capacità di leggere le emergenze del territorio e di lavorare prima come giornalista per sensibilizzare l’opinione pubblica locale e romana e poi come deputato per agire nei consessi romani a favore di queste emergenze:
1) un rafforzamento concreto dell’Arsenale militare che stentava a decollare per una certa distrazione degli ambienti romani, che avrebbe avuto ricadute positive sui livelli occupazionali di tutto il circondario di Taranto e oltre;
2) una soluzione soddisfacente per il porto mercantile che avrebbe anch’esso significato un ritorno di benessere economico per il territorio;
3) una presenza qualificata a Taranto dell’aeronautica militare;
4) un ampliamento della rete ferroviaria che avrebbe doppiamente servito cittadini e commesse commerciali;
5) una legge per il Mar Piccolo che paradossalmente dopo il tramonto delle “peschiere”, quel sistema privatistico di sfruttamento che aveva retto l’economia di questo mare dal medioevo all'unità d’Italia, proprio nel momento della sua liberalizzazione stenta a trovare nelle soluzioni locali e nazionali una sistemazione economica e gestionale efficiente e produttiva.
In tutto questo groviglio di problemi lo aiutò la precedente esperienza giornalistica nel modello di comunicazione in quella non facile azione di captare l’interesse non solo degli enti locali del tempo, ma di quelli romani sui vari problemi del circondario di Taranto e la lettura di questo libro ce ne rende pienamente edotti.
 Infine qualche proposta “ardimentosa”. La difesa del Paese passava necessariamente anche da Taranto e per questo avanzò, in momenti diversi, la proposta di due progetti che rispondevano ai suoi occhi alle esigenze di razionalizzazione delle forze militari e delle strategie di intervento in una eventuale guerra: il primo progetto si riferiva alla costruzione di un canale navigabile da Taranto a Brindisi, dallo Jonio all'Adriatico, in modo da poter trasferire rapidamente parte della flotta da un mare all'altro, in caso di guerra con l’Austria o per un più stretto controllo del Canale d’Otranto; il secondo prevedeva una specie di uscita di emergenza della flotta dal mar piccolo per evitare l’imbottigliamento nei due seni se il ponte girevole fosse stato attaccato, suggerendo un secondo canale a Porta Napoli.
Questo secondo progetto verrà ripreso in tutta segretezza, all'insaputa della città, dalla marina militare nel 1936 e in piena guerra nel 1942. Quando frequentavo con più assiduità l’archivio centrale dello stato a Roma, mi imbattei nel fondo del Gabinetto della Marina Militare in un grosso faldone ancora intonso, mai aperto, dove sostanzialmente ho ritrovato, ripresa dai vertici della marina militare, l’idea di Di Palma di un secondo canale navigabile nella città vecchia, con foto di plastici e disegni. Quindi qualcuno forse non aveva dimenticato il progetto che il nostro deputato aveva suggerito a suo tempo.
 Per altre suggestioni rimando come detto all'inizio alle pagine della prefazione. Scorrono in questo libro pagine di una storia solo apparentemente lontana nel tempo, perché, pure presenti con altre dimensioni e caratteristiche, alcuni dei mali allora denunciati da Di Palma serpeggiano ancora nelle nostre contrade, nei nostri orizzonti locali, turbando e interrogando la coscienza di chi ha una coscienza, nella speranza che si possano in qualche modo prima o poi risolvere.